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Calogero Imbergamo affettuosamente chiamato dagli amici "Lillo", fondatore nel 1947 e presidente della gloriosa "Bettini Quadraro":

Il 17 luglio 2013, è venuto a mancare il fondatore del Bettini Quadraro, Calogero Imbergamo (Lillo), il grande condottiero che portò il Bettini Quadraro al vertice del calcio Romano e Nazionale. La sua passione ha permesso a tanti ragazzi di giocare ed essere protagonisti.

Un’idea chiama Bettini Quadraro

http://www.bettiniquadraro.it/storico.asp?s=storia

Il percorso del Bettini Quadraro

La storia del Bettini Quadraro inizia nel giugno 1947. “Un gruppo di ragazzi che si vedeva nella sezione del Pci di via Cincinnato, dove oggi c'è la trattoria, decise di mettere su una squadra di calcio e mi chiese di fare da organizzatore. La cosa buffa è che io c'azzeccavo poco con le loro convinzioni politiche e in campo ero una schiappa ma di pallone ne capivo assai. Insomma ero considerato al di sopra delle parti e in grado così di spartire le litigate quotidiane. Comunque sia si stabilì una sottoscrizione di mezza lira a testa e si battezzò la squadra col nome del giornale dei comunisti: Unità Quadraro” (Parole di Calogero Imbergamo, fonte Claudio D’Aguanno) Altra tappa fu la famiglia Quadraccia, nota per le bici, che si fece “convincere” dal presidente a dare il nome alla squadra del quartiere: Quadraccia Quadraro. Il nome durò per un po’ di anni, ma l’avventura e la passione crebbero notevolmente. Altro nome dato alla società era Villani Quadraro, dal nome di un negozio di radio e televisioni che si trovava nelle vicinanze dei p.za del Quadraretto. Ma il nome definitivo alla squadra fu dato dal pastificio Bettini, noto per la sua qualità. Il proprietario dell’azienda, Zanetto Bettini, aveva un figlio, Roberto, che giocava in porta, anche a buon livello. Anche in quel caso l’opera “convincente” è stata quella del presidente Imbergamo e il “Pastifico Bettini”, che oggi non esiste più, legò il nome della squadra a quello del quartiere. La squadra ( e siamo a metà degli anni 50 ) si chiamò Bettini Quadraro, nome che fu definitivo, tranne la parentesi, a metà degli anni settanta, di Cedar Bettini, “matrimonio” che durò per un paio di stagioni. I campi di gioco furono per primo il Sangalli, che si trovava a Torpignattara, poi il trasferimento al campo “Tombe Latine”, l’attuale San Anna, dove gioca l’Almas Roma, e nel 1955 il Bettini Quadraro trasferì armi e bagagli allo storico campo Cinecittà, che si trovava all’angolo tra la via Palmiro Togliatti e la Via Tuscolana. Nel 1986, per fare posto al Centro Commerciale “Cinecittà Due”, il campo si è trasferito in Via Q. Publicio, dove è attualmente. Dalla metà degli anni 90, precisamente nel 1994, la storica e gloriosa squadra si è fusa con la Pol. Cinecittà, dando vita all’attuale Pol. Cinecittà Bettini. Per quanto riguarda l’attività della società calcistica “Imbergamo, allora ventenne” (siamo nel 1947,…) “dopo i primi contatti calcistici nel torneo UISP”, scalò il vertice regionale con la squadra in promozione, il massimo torneo regionale” di allora. “Quando la Lega Laziale ridusse i gironi della Promozione da tre a due, il Bettini Quadraro s’indirizzo verso l’attività giovanile” (Fonte Roberto Ciavatta). Il Bettini Quadraro è rimasto al vertice del calcio Laziale e Nazionale per diversi anni, dando vita a un’impresa bella, affascinante ma irripetibile. Non ci interessa menzionare i giocatori arrivati a giocare nella massima serie ( e vi possiamo assicurare sono tanti….). Quello che ci preme mettere in risalto è che con l’attività sportiva tanti ragazzi, sia del quartiere che da tutte le parti di Roma e del Lazio, hanno avuto l’occasione di cimentarsi in uno sport bello come il calcio e avere degli obbiettivi che sono ben diversi dal semplice sentirsi famosi, ma semplicemente protagonisti. Il resto appartiene alla storia che vogliamo continui sugli album dei ricordi e sul sito che abbiamo costruito.

la storia del bettini quadraro

di claudio d'aguanno


Quella è una stagione tutta da incorniciare e sulle tute c?avevamo una Q maiuscola, come Quadraro, stampata sul petto. Eravamo proprio una squadra seria...

Svoltata via Cave il più era fatto. Il trenino biancoblù della Stefer, che per via dei colori qualcuno chiamava laziale, partito da Termini una vita prima, all'altezza del pino secolare al 481 della Tuscolana, trovava pure modo di rallentare la corsa. Porta Furba, anni '60 o giù di lì, ti veniva incontro in un traffico di sgomitate ai finestrini, occhiate malandre, battute paracule, gesti persi in direzione delle baracche dell'Acquedotto Felice. Il mister della mia squadretta allievi c'aveva un po' la fissa per il tram e per questo motivo una trasferta dalle parti di Cinecittà era un viaggio che non finiva mai. Si partiva con l'11, una specie di accelerato Garbatella-Portonaccio, e dopo una mezzora, dalle parti di Piazza Vittorio si cambiava. La marcia lunga nel sud-est pallonaro era una caciara che a volte chiudeva in gloria ma spesso invece imbronciava in penitenza. Dipendeva dal risultato della partita. In ogni caso però, quando il trenino col pantografo sfiorava i ruderi secolari, il clima si dava una smossa. Al fontanone del Mandrione, a seconda delle ore e delle stagioni, ci vedevi pischelli ammollo, donne zingare che lavavano panni, cocomerari un tanto a fetta e file lunghe di militari, scarsi di paga e digiuni di donne, che da quelle parti c'andavano a puttane. Anche, forse, per dare un senso a quella loro "libera uscita" lontana da corvée, furerie, cippierre e signorsì.

Il curvone che imboccava sulla discesetta del Quadraro s'apriva improvviso al sole del pomeriggio e a sinistra ti trovavi la borgata delle case basse, col cinema Folgore di via dei Quintili, mentre sulla destra c'erano i palazzoni di Cecafumo. Il mister ci avvisava che stavamo "in casa del Bettini" e qualcuno, più smagato degli altri, dalla terrazza della ferrovia t'indicava in lontananza, dietro le torri di De Renzi e Muratori, dov'è che stava il campo tosto dell'Ina Casa o più giù il Patti dell'Aurora Tuscolano. Ma il capolinea per tante borse, borsoni e scarpinacci zozzi, era proprio davanti al Cinecittà dove erano di casa i giallorossi di Lillo Imbergamo una formazione che per mezzo secolo e passa ha fatto la storia del calcio a Roma. Oggi su quel terreno c'è un ipermercato firmato Lamaro che sembra un tempio pagano, un accrocco babilonese per botteghe, merci e musica a palla. Qui al posto degli alberi e degli spogliatoi di una volta ci sono parcheggi e svincoli che dirottano sulla Palmiro Togliatti. Il campo s'è spostato in via Raimondo Scintu, alle spalle degli studi cinematografici e il faccione del Colosso di Rodi, un po' butterato dalle intemperie, sorveglia un viavai noioso di aspiranti veline o fans idioti del grande fratello. Non c'è più nessun trenino biancoblù che ci ferma davanti ma a ricordarci molte cose è proprio il presidentissimo e i suoi lampi di memoria partono dall'Italia del dopoguerra.

«Il racconto del Bettini - attacca Imbergamo - inizia nel '47. Un gruppo di ragazzi che si vedeva nella sezione del Pci di via Cincinnato, dove oggi c'è la trattoria, decise di mettere su una squadra di calcio e mi chiese di fare da organizzatore. La cosa buffa è che io c'azzeccavo poco con le loro convinzioni politiche e in campo ero una schiappa ma di pallone ne capivo assai. Insomma ero considerato al di sopra delle parti e in grado così di spartire le litigate quotidiane. Comunque sia si stabilì una sottoscrizione di mezza lira a testa e si battezzò la squadra col nome del giornale dei comunisti: Unità Quadraro. Il punto di ritrovo era il Bar Carfagna, all'incrocio tra via dei Quintili e via dei Lentuli, mentre per allenamenti e partite ufficiali s'andava al Sant'Anna. E così al nostro primo torneo Uisp arrivammo in finale contro l'Andrea Doria di Lionello Cianca. Andò bene. Alla fine andò bene. Ma, proprio perché non eravamo un club di signorini o forse perché il Quadraro è il Quadraro, tutto prese subito una piega alquanto movimentata. C'avevamo infatti un portiere che era una saracinesca, tutti lo chiamavano Bandone, era una sicurezza assoluta ma quello alla vigilia non trovò di meglio che mettersi nei guai.

"A Li' - corsero a dirmi i suoi amici - se so' bevuti Bandone".

Per farla breve mi toccò d'andare a parlare col maresciallo dei carabinieri. Non so come feci, erano altri tempi, però alla fine lo convinsi e in campo scendemmo al completo, scazzottammo come al solito ma, di dritta o di storta, ci guadagnammo un posto per il girone nazionale a Bologna.»

Sul carattere ribelle di quei ragazzi cresciuti nel perimetro stretto di poche vie, tra l'ex sanatorio Ramazzini e i pratoni dell'aereoporto e la Tuscolana, c'è chi c'ha scritto libri. Loro avevano frequentato le imprese gappiste di Sasà e di Carla, di Marisa Musu o di Clemente Scifoni che un giorno di marzo bussò alla porta dell'odiato questurino Stampacchia scaricandogli il revolver addosso. S'erano fatti adulti tra la sfrontatezza sottoproletaria del Gobbo e le azioni degli uomini di Bandiera Rossa, tra le deportazioni naziste e le rappresaglie infami. E per liberarsi non avevano neppure aspettato gli americani. Ora, per quei "banditi del Quadraro", la voglia di riscatto sapeva anche di calci al pallone e contrasti a centrocampo. «A Bologna - riprende l'anziano presidente - arrivò un'altra carrettata di impicci. Non c'era verso di disciplinare quella brigata. Senonchè la voglia di farsi valere a un certo punto fu più forte delle minacce di essere rispediti a casa. Cominciammo a giocare e in finale ce la vedemmo con l'Alessandria, una formazione da serie A. Prendemmo una sveglia ma quel giorno era nata una società di calcio.»

quadracciaI primi a credere nell'impresa sono i commercianti del posto e Calogero Imbergamo detto Lillo è un mago di relazioni e inventiva manageriale. «C'era un ex brigadiere della stradale che s'era messo in proprio a fare biciclette. Si chiamava Roberto Quadraccia, organizzava gare e aveva il suo negozio al 14 di via dei Lentuli attaccato al Bar Carfagna. Lo convinsi a mettere il suo nome sulle maglie del Quadraro e fu praticamente il nostro sponsor per un bel po'. Come campo stavamo al Sangalli alla Maranella. Poi a un certo punto, visto che avevo in squadra il figlio di Zannetto Bettini che di mestiere faceva il pastaro, mi misi a tampinare lui, la moglie e tutta l'industria di famiglia fintantochè il marchio del migliore pastificio di tutta Roma divenne tutt'uno con quello della squadra. Da allora ci siamo chiamati Bettini Quadraro e, più o meno nel '55, ci siamo spostati a Cinecittà. Lì ci siamo rimasti più di trent'anni e lì sono venuti fuori i grandi campioni come Rocca, Ciccio Graziani, Superchi e Alberto Di Chiara. Lì su quel campo ci siamo fatti una nomina e di titoli ne abbiamo fatto collezione. A livello italiano e fuori. Pensa che a un torneo internazionale a Tolosa c'erano più di ventimila persone a vederci allo stadio battere il Real Saragoza.»

Difficile in tanto affollamento di volti e sorrisi scegliere le figurine migliori. «Beh - sospira Imbergamo - tutti gli allievi e juniores delle finali nazionali meriterebbero una citazione. Quella degli anni '60 era proprio una leva formidabile. E quel campo di Cinecittà, ormai scomparso, era mitico. C'ho visto crescere gente come Gianni Santarelli, un portiere di grande qualità che ha giocato alla Juve e ha fatto da secondo a Dossena. Ora allena all'Appio Claudio qui dietro sotto gli archi dell'acquedotto. E poi c'era Carpanti, Cattarin, Cucchi e un certo Triggiano che non si reggeva in piedi.

"Ma che combini? - gli facevo - Com'è che stai così aggravato? Vai a mignotte?"

"See - mi diceva - nun c'ho 'na lira preside'!""Allora, famme capì, cosa hai mangiato oggi a pranzo?"

E lui. "A pranzo a casa mia non si mangia."

"E a cena?"

"Verdura."

"E ieri?"

"Ancora verdura."

"Senti - dissi tirando fuori il portafoglio - dammi retta, va al macellaro che è un amico mio e fatte dà una bistecca come dio comanda..."

Ecco, ripeto, quella è una stagione tutta da incorniciare e sulle tute c'avevamo una Q maiuscola, come Quadraro, stampata sul petto. Eravamo proprio una squadra seria e più ci penso e più dovrei citare tutti. Oddio... tutti tutti magari no. Uno come Giammei che ci fece perdere il titolo italiano se lo rivedo lo butto subito fuori squadra. Pensa... mancavano pochi secondi alla fine, uno a zero per noi e fallo laterale a favore. Stavo in panchina col mister. Vai calmo gli faccio, batti bene, prendi fiato. E quel chiocchiolone invece rimette in gioco come uno sprovveduto e sul controfallo si mette a protestare con l'arbitro. Cartellino rosso, punizione per loro, difesa sguarnita e gol del pareggio beccato sul fischio finale. E fu così che poi ai rigori buttammo via il titolo di campioni d'Italia juniores. Ma come si fa? Te l'ho rivisto Giammei un po' d'anni fa. È grande e grosso e c'ha pure figli. Ma gliel'ho detto uguale: "A' Giamme', che m'hai combinato!»

Claudio D'Aguanno

(giornalista L’Unità e amico del presidente Lillo)

 

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