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"TRA i sopravvissuti credo che di vivi siamo rimasti in due: io, che ho 87 anni e Sisto Quaranta, che ne ha 90". Romano Levantini racconta il rastrellamento del Quadraro, quel 17 aprile del 1944 in cui i tedeschi portarono via ragazzi e uomini. All'alba i nazisti di Kappler  -  forse a seguito di un blitz del 10 aprile da parte del gobbo del Quarticciolo in cui furono uccisi 3 tedeschi  -  rastrellarono circa mille persone.

Sono passati 71 anni. Cosa ricorda di quel giorno?
"Avevo 16 anni: bussarono col calcio del fucile, e presero me e mio fratello Ario, che il Fascio aveva ribattezzato Mario. Ci portarono al cinema Quadraro per identificarci. Da lì fummo trasportati a Cinecittà dove rimanemmo 4 giorni. Io mangiai un uovo con la coccia, sperando di sentirmi male, ma ero così affamato che non ebbe alcun effetto. Da lì su carri bestiame alle acciaierie di Terni dove restammo altri 4 giorni: mangiavamo un panino di segale del 1940 in quattro".

Il vostro viaggio però non era finito.
"Sui camion ci portarono a Firenze: ricordo il freddo di notte e le bombe sulla città. Su 850 alla fine 4 erano già morti. E poi Carpi, a 6 chilometri dal campo di Fossoli: ci rasarono a zero e ci diedero una coperta, un cucchiaino e un tegamino.
Entrammo nel capannone, con le sue 24 finestre prive di vetri. A turno uno di noi offriva la sua coperta per coprirne almeno una mentre dormivamo sui tavolacci nei letti a castello. A Fossoli passammo 56 giorni: avevamo una tazza di orzo senza zucchero a colazione e 4 cucchiaiate di minestrone e un panino che il giorno dopo diventava verde. La cena non esisteva".

Intanto gli alleati risalivano verso Nord.
"Quando Roma fu liberata, il comandante del campo  -  si chiamava Stukas, lo ricordo bene  -  ci disse "faccia un passo avanti chi vuole andare a lavorare volontario in Germania" e, visto che nessuno si era mosso, aggiunse che Fossoli era un campo di villeggiatura rispetto ai lager tedeschi. Davanti alla minaccia cedemmo. Solo 15 rifiutarono".

Qual era il vostro destino?
"Dovevamo andare alle miniere a Ratibor, a 1.200 metri di profondità. Io non volevo: avevo già deciso di scappare dal treno, avevo preparato un attrezzo, ma a bordo capii che era inutile. È stata l'unica volta che ho pianto. Poi di notte ho guardato Ario, lo chiamavo ancora così, e saltammo, sperando che il tedesco con il mitragliatore non ci vedesse. Ci andò bene: eravamo a 12 chilometri da Verona".

Come fu il ritorno a casa?
"Per anni ho avuto paura persino dei netturbini: le divise mi terrorizzavano. Ma voglio ricordare e raccontare: troppi giovani oggi non sanno"


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