Articoli sul Quadraro
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Roma Quadraro-Città 2016-2019 è una mostra di fotografie e video, inserita nell'ambito delle celebrazioni della Resistenza romana. La mostra, visitabile dal 12 al 18 aprile, si tiene nella galleria Embrice, in via delle Sette Chiese 78, ed è patrocinata dall'VIII municipio. Il Quadraro ha ben due medaglie al valor civile, una data da Ciampi e la seconda da Mattarella, una al quartiere e l'altra a Don Gioacchino Rey, parroco della parrocchia della Madonna del Buonconsiglio che si oppose al rastrellamento del Quadraro, il 17 aprile del 1944.Autore delle immagini il fotografo Giuseppe Francavilla, fotografo palermitano, contributi video di Lucilla Salerno. La mostra è curata da Carlo Severati, architetto, e Ginevra Salerno, docente di Architettura presso l'università Roma Tre.
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dalla nostra inviata Brunella Giovara
La collaborazione dei nostri militari con le SS è ormai accertata. Da qui Primo Levi partì per Auschwitz
La Repubblica 26 GENNAIO 2023
Campo di concentramento di Fossoli
FOSSOLI - Di questi tempi, conviene farsi un giro al campo di concentramento di Fossoli. Un posto ora quieto, nelle nebbie della bassa modenese. È stato un luogo di dolore disperato, addii, e non ritorni. Migliaia di deportati per lo più italiani, 6mila tra ebrei e politici, sono passati da qui per andare a morire nei lager tedeschi e polacchi. Uno dei sopravvissuti, che era Primo Levi, ricordò che il giorno della partenza per Auschwitz, alla stazione di Carpi disse a un milite italiano (un emiliano, uno forse persino spaventato da quello che vedeva e faceva) "faccia il ladro, è molto più onesto". Intorno, botte da orbi a chi tardava a salire sul treno. "Si ricordi che lei ne è complice", poi anche lui entrò nel vagone. Abbiamo dimenticato questi fatti. Molti ricordano il regime di Mussolini come giammai ostile verso gli ebrei, minimizzando le leggi razziali del 1938, omettendo i provvedimenti della Repubblica sociale che diedero il via alla caccia all'ebreo.
"Gli ebrei in questa guerra sono nemici e vanno trattati come tali", lo stabilì la Carta di Verona. E poi Buffarini Guidi ne ordinò la cattura, stabilendo che quelli presenti sul suolo italiano andavano internati in un luogo definito, in attesa di finire nel campo speciale di Fossoli. Marzia Luppi, direttrice della Fondazione Fossoli, ha appena inaugurato una mostra sui ritratti fatti nel campo da Armando Maltagliati e Lodovico Belgiojoso, e ricevuto alcune lettere preziose, donate dai discendenti di Carlo Prina. Il partigiano e reclutatore di partigiani Prina venne ucciso nella strage del poligono di Cibeno, non lontano da qui: 67 persone mitragliate dalle Ss, ed erano tutti prigionieri di Fossoli, nel punto esatto "dove comincia il tema della responsabilità italiana nella cattura e deportazione degli ebrei, e non solo", spiega la dottoressa Luppi.
Il 12 luglio 2021 il presidente della Commissione europea David Sassoli venne per l'anniversario, assieme a Ursula von der Leyen, una tedesca. La presidente del Parlamento europeo disse "è stato un soldato tedesco a ordinare di uccidere i vostri genitori e i vostri nonni. È una colpa profonda nella storia del mio Paese". Certo, ma Fossoli era un campo di concentramento per ebrei della Rsi, e la sola autorità a cui rispondeva era la questura di Modena. Italiani, brava gente, volenterosi esecutori di ordini interni, prima che di quelli nazisti. Non zona grigia, ma nera proprio, e non solo per il colore delle divise. Fabio Levi, storico e presidente del Centro Internazionale Primo Levi: "Fossoli è la prova provata che i tedeschi e gli italiani agivano insieme. Ed è un nome che tutti dovrebbero imparare a memoria, visto che molti lo pronunciano ancora nel modo sbagliato, cioè Fossòli". Lì ci fu "la collaborazione concreta, nei fatti, nell'avvio della deportazione, e non ci possono essere equivoci sui fascisti di allora e quelli che sono venuti dopo: i neofascisti sono gli eredi dei repubblichini, quei fascisti incattiviti che se la presero con gli ebrei".
In quella zona nera, gli italiani facevano il loro lavoro: "Cercare gli ebrei. Le forze di polizia della Rsi conoscevano bene il loro territorio, e soprattutto avevano un'ottima documentazione per trovarli", spiega Luppi. Erano gli elenchi del censimento avviato nel 1938 dopo il Manifesto della razza, e concluso nel 1939, con la schedatura di oltre 47mila persone (la fonte è il Governo). La caccia fu semplice e "il primo convoglio partì il 26 gennaio del 1944, con 83 prigionieri, caricati dalla polizia italiana sui camion e portati alla stazione di Carpi, dove li aspettava il treno per Bergen Belsen. Qui i nazisti li presero in consegna. Ma quando si parla di questi crimini, si tende sempre ad addossare le colpe ai tedeschi. Le responsabilità italiane passano ancora sotto silenzio". E anche la seconda spedizione (19 febbraio), fu permessa e attuata con la collaborazione della questura di Modena. E così la terza: 22 febbraio, il treno su cui salì Primo Levi, con destinazione Auschwitz. Il 15 marzo 1944 il comando germanico di Verona prende possesso di un'area di Fossoli, il cosiddetto campo nuovo. Luppi: "L'altro resta gestito dalla questura. E si spartiscono le persone. Ma gli italiani mantengono il controllo su tutta l'area del campo", e purtroppo.
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di Marcello Pezzetti
Lo scrittore, fermato il 13 dicembre 1943, è deportato nel campo italiano da dove, il 22 febbraio, è trasferito ad Auschwitz. Ecco la ricostruzione
La Repubblica 20 FEBBRAIO 2024
Un particolare della carta di identità di Primo Levi prima della deportazione ad Auschwitz
«L’alba ci colse come un tradimento… Alla stazione di Carpi... ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio… Vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiú, verso il fondo».
Così descrive Primo Levi, in Se questo è un uomo, la partenza da Fossoli per Auschwitz.
Il chimico Primo era stato arrestato il 13 dicembre 1943 con il medico Luciana Nissim e il chimico Vanda Maestro in un alberghetto di Amay, sul Colle de Joux, dove si trovavano, con Guido Bachi e Aldo Piacenza, per organizzare la loro partecipazione alla lotta contro il fascismo. Luciana, Vanda e Primo, ebrei, si conoscevano da diversi anni, perché facevano parte di uno straordinario gruppo di giovani intellettuali antifascisti che si radunava regolarmente presso la biblioteca della scuola ebraica di Torino.
«Quando ci hanno arrestati… noi abbiamo detto che non eravamo dei partigiani o dei banditi, ma eravamo degli ebrei nascosti», ha testimoniato Luciana, come del resto avrebbe confermato Primo. Solo nel carcere di Aosta iniziarono a comprendere la devastante centralità della politica antiebraica nazi-fascista, a prendere coscienza del fatto che «… forse per gli ebrei... non era aria. Prima no, prima non avevamo grande idea di quello... non sapevamo... non ce lo chiedevamo, devo dire».
Dopo circa un mese furono inviati a Fossoli, dove, nel luogo in cui si trovava un campo di concentramento per prigionieri di guerra, il 5 dicembre era stato istituito dalle autorità italiane il campo di concentramento nazionale per ebrei, in base all’Ordinanza di polizia del Ministero degli Interni del 30 novembre.
Le amiche di Primo Levi: Luciana Nissim e Vanda Maestro
A partire da questa data, iniziarono ad essere inviati in questo luogo, autonomamente gestito e sorvegliato dagli organi di Polizia italiani, gruppi sempre più numerosi di ebrei arrestati in tutto il territorio della RSI. Una illuminante descrizione del campo in questa prima “fase italiana” si deve proprio a Luciana, in una rarissima testimonianza rilasciata sui resti delle baracche del campo agli inizi degli anni ’90: «Vedo un posto verde, con della gente. Niente di drammatico.
Un campo piccolo, con il sole, con della gente che si muoveva, faceva le sue cose. Probabilmente si vedeva al di fuori delle persone, libere. Questo sì, colpiva questa gente che era fuori dai fili spinati. Ma non c’era quest’aria di terribile disgrazia, anche se oggi sembra un po’ grottesco». Questo ingannevole clima di tranquillità, tale da rendere la situazione quasi “normale”, venne descritto da diversi testimoni arrivati anche nei mesi successivi, che qui raggiunsero o furono raggiunti da altri membri del proprio nucleo familiare di cui non avevano più notizie.
Uno di loro, Nedo Fiano, arrivò a sostenere: «Non voglio esaltare il campo di Fossoli, per l’amor del cielo… ma l’arrivo qui dal carcere (le Murate di Firenze) ebbe un vissuto estremamente favorevole. Qui c’era un po’ di verde, degli alberi…», e un altro, Alberto Sed, disse che «Sembrava una vita normale».
Ulteriori motivi di illusione furono la mancanza di personale nazista; la costante e rassicurante presenza del parroco di Fossoli, don Francesco Venturelli, munito del permesso di entrare per occuparsi dei convertiti al cattolicesimo, ma che prestò aiuto anche a molti ebrei “puri”; il contatto, sempre più sistematico, con alcuni abitanti del luogo che svolsero “funzioni speciali” (fornaio e barbieri); l’organizzazione interna della vita affidata agli stessi prigionieri, che gestirono autonomamente le varie mansioni (capo campo, vari capo baracca, responsabili dell’alimentazione e della cucina, delle attività culturali e addirittura “ludiche”); l’assenza, infine, di maltrattamenti da parte del personale di sorveglianza (carabinieri, uomini della PS e della Milizia), in particolare del direttore del settore ebraico del campo, Domenico Avitabile, vicecommissario di Pubblica sicurezza.
Questa fu la grande illusione che vissero i tre giovani intellettuali giunti dal carcere di Aosta, che fecero vita comune fino alla deportazione e ai quali si aggiunse Franco Sacerdoti, ebreo napoletano trasferitosi a Torino e arrestato in Val di Lenzo. «Stavamo sempre insieme noi quattro — raccontò Luciana –, facevamo le cose che dovevamo fare, accoglievamo la gente, stavamo a chiacchierare insieme. Non ricordo particolari melanconie o preoccupazioni… eravamo forti, giovani… Aiutavamo la gente per quanto possibile, volevamo bene agli amici. Non c’erano sacrifici particolari, si stava insieme con gli amici o le famiglie. Non lo ricordo come un periodo duro, spiacevole… Certamente la gestione del campo la facevamo noi. Io e altri capo baracca suddividevamo i compiti, ma non era un lavoro coatto. Il capo del campo, Avitabile, veniva a chiacchierare amabilmente con noi».
Nemmeno l’arrivo di sempre più numerosi blocchi familiari ebraici e la presenza di numerosi anziani, tra cui un folto gruppo proveniente dalla casa di riposo israelitica di Venezia, suscitò in quei giovani forti dubbi sulla sorte loro riservata. «Io non avevo il senso dell’ebraismo, della persecuzione; me l’ero aggiustata così, che io era una combattente, subiva l’infelicità, i dolori, i rischi di chi aveva deciso, in quel momento, di combattere… Per me non era il preludio della morte. Era un momento di passaggio fra una vita e un’altra. Insomma, la vita continuava».
La convinzione di quasi tutti era che la guerra sarebbe presto finita e che, quindi, in un modo o nell’altro tutti sarebbero ritornati a casa. Un fatto ancor più convincente avvenne prima della fine di gennaio: giunse in campo la notizia che i giovani medici appena laureati potessero accedere all’esame di Stato. Luciana, con l’aiuto di Avitabile, fece domanda per essere ammessa. E il 10 febbraio la Prefettura di Torino concesse anche all’“ebrea italiana internata” Luciana Nissim il permesso di sostenerlo. Luciana, però, non ricevette mai tale comunicazione, ed alcuni giorni dopo venne deportata.
A gennaio, infatti, le autorità tedesche e quelle italiane si erano accordate sul fatto che le prime avrebbero potuto procedere alla deportazione nei campi del Reich degli ebrei arrestati nel territorio della RSI. Dopo l’invio di due piccoli trasporti di ebrei anglo-libici a Bergen-Belsen, da usare come “merce di scambio”, il 22 febbraio si procedette alla prima deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Nessuno se l’aspettava: «Come scrive Primo — testimoniò Luciana –, noi stavamo mangiando, sono arrivati gli italiani: “Domani mattina partite!”. Ci stavamo facendo uno spaghetto, abbiamo smesso di mangiare questo spaghetto. “Domani si parte per la Germania!”. Ce l’hanno detto in quel momento lì, dalla sera alla mattina. E lì è stato il momento della... fine». Il mattino dopo, alla stazione di Carpi, i quattro amici appresero la loro destinazione: Auschwitz, “un nome privo di significato”. Giunti al Brennero, riuscirono a buttare dal vagone dei biglietti scritti a mano a familiari e ad amici comuni, che arrivarono a destinazione.
Giunti alla Judenrampe di Birkenau, furono divisi. Scrisse Primo: «Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita». Tutti e quattro furono selezionati per il lavoro coatto. Primo e Franco vennero portati in camion a Buna-Monowitz; Luciana e Vanda furono avviate, a piedi, a Birkenau. La sorte di Primo è conosciuta da tutti; Franco morì nel gennaio del 1945 durante la marcia di evacuazione. Luciana venne impiegata come medico nel Frauenlager del campo, quindi trasferita in un sottocampo all’interno del Reich, da dove, prima della liberazione, riuscì a fuggire.
Alcuni anni dopo sarebbe diventata una famosa psichiatra. Vanda, purtroppo, come disse Luciana, «…è stata una sommersa subito. Le si sono subito gonfiate le gambe, si trascinava a stento. Un mese dopo l’hanno selezionata». Un’altra dottoressa italiana deportata, la triestina Bianca Morpurgo, riuscì a somministrarle un barbiturico: «All’ultimo momento le ho dato un tubetto di Gardenal! È stato un vero strazio», scrisse Bianca a Luciana in una lettera alla fine del 1945.
Luciana raccontò che le ultime parole che sentì da Vanda furono: «Se avrai una bambina, chiamala Vanda» e questo avvenne: «Ho avuto una bambina che è nata morta. La bambina che ho avuto, che è nata morta, si chiamava Vanda».
Degli oltre 600 ebrei deportati ad Auschwitz-Birkenau con il primo trasporto da Fossoli ne tornarono 25, i soli sopravvissuti.
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di Marco Belpoliti, di Marco Belpoliti
la Repubblica 20 APRILE 2022
Da aguzzini ad attori. Non è fiction ma realtà: due luogotenenti di Kappler lavorarono sui set di Risi, De Sica, Visconti
A sinistra Borante Domizlaff, vice di Kappler, in una scena della Ciociara
La sera del 21 dicembre 1961 al cinema Metropolitan di Roma c'è la prima del film di Dino Risi Una vita difficile. Nelle prime scene il protagonista, Alberto Sordi, veste i panni di un giornalista partigiano, Silvio Magnozzi. Dopo un rastrellamento, cui è scampato, finisce in un hotel pieno di tedeschi. Qui viene affrontato mitra alla mano da un soldato tedesco. L'azione dura poco più di un minuto ed è la premessa per raccontare la storia di Magnozzi attraverso quindici anni di storia italiana. Elena, la figlia della padrona dell'hotel, uccide con un ferro da stiro il tedesco e salva Silvio dalla fucilazione.
Il soldato ammazzato - nella vita reale, non nella finzione - non è altro che Borante Domizlaff, un ex maggiore delle Ss, il vice del tenente colonnello Herbert Kappler, il responsabile della strage di 335 italiani nelle cave di via Ardeatina il 24 marzo 1944. Cosa ci fa un nazista vero nei panni di un nazista in costume in un film italiano dell'epoca? Partendo dalla presenza di Domizlaff in questo, come in altri film, Mario Tedeschini Lalli ricostruisce in una sorta di inchiesta-giallo, l'appassionante Nazisti a Cinecittà (Nutrimenti), la storia delle Ss nei film italiani del Dopoguerra.
Tre sono i principali interpreti di questa vicenda dai mille fili e intrecci, che si spande a macchia d'olio: Domizlaff, il suo collega Karl Hass, maggiore delle Ss, anch'egli presente alle Fosse Ardeatine, organizzatore di una rete di spie tedesche. E poi un terzo imperscrutabile personaggio: il barone Otto von Wächter. Quest'ultimo è stato governatore di Cracovia e ha creato la divisione Waffen Ss ucraina.
Accusato dell'uccisione di centinaia di migliaia di ebrei, è uno dei criminali di guerra più ricercati. Morirà in modo oscuro a Roma nel Dopoguerra, come ha raccontato, nel suo libro La via di fuga. Sulle tracce di un criminale nazista (Guanda), Philippe Sands.Sullo sfondo altri personaggi come Erich Priebke, ricercato per la medesima strage, rifugiato in Argentina, e il conte Anton Bossi Fedrigotti, altoatesino di fede nazista. Intorno a loro si muovono innumerevoli personaggi più o meno minori, come il vescovo tedesco Alois Hudal, protettore di nazisti nella capitale e loro punto d'appoggio verso il Sudamerica.
La storia comincia con un mistero: l'autore di Una vita difficile è Rodolfo Sonego, uno dei più importanti sceneggiatori italiani, che era stato durante la guerra un comandante partigiano. Come poteva non sapere che a interpretare il nazista c'era il braccio destro di Kappler? La risposta non c'è. Domizlaff non figura solo in quel film. Ha avuto un ruolo anche in altri, come La ciociara di Vittorio De Sica, uscito l'anno precedente, e La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, dove recita nei panni di una Sa nazista nell'episodio legato alla notte dei lunghi coltelli. Lo troviamo nel 1960 persino in una scena di Tutti a casa di Luigi Comencini, dove è ancora una volta un milite tedesco in divisa che scopre e cerca di catturare una ebrea interpretata da Carla Gravina.
Scavando come un minatore Tedeschini Lalli ha sondato il web, ha consultato elenchi telefonici della Germania e dell'Italia, scartabellato dossier desecretati della Cia, passato in rassegna foto di scena, dato la caccia a indirizzi e viaggiato da un capo all'altro dell'Europa alla ricerca delle storie di questi personaggi, parlando, quando gli è stato possibile, con i loro eredi. Voleva capire quale fosse la rete che legava i due ex-maggiori della Ss al cinema. Ha scovato così una pellicola di Aldo Scavarda, suo unico film come regista, La linea del fiume, del 1975, opera per ragazzi, dove Karl Hass recita la parte di un generale tedesco. Anche Scavarda, come Sonego, era un ex partigiano, torturato dai nazisti.
Le storie che l'autore ci racconta sono insieme inquietanti e banali. Hass non se la passa certo bene; fugge innumerevole volte per evitare la chiamata in correo della strage. Viene protetto dai servizi segreti americani ed è sospettato di fare il doppio e triplo gioco, ma molti anni dopo sarà condannato all'ergastolo. Domizlaff, che nel 1948 è a fianco di Kappler nel processo, viene assolto perché nonostante abbia sparato alle Ardeatine, se la cava con il fatto d'aver obbedito agli ordini. Nel libro c'è anche il sottobosco fascista dei reduci di Salò, che i servizi americani usano in funzione anticomunista durante la Guerra fredda.
Le coincidenze nella vita di questi personaggi sono tantissime e spesso sconcertanti. Troviamo ad esempio il nazista scrittore conte Anton Bossi Fedrigotti partecipare alla produzione di innumerevoli film come Le quattro giornate di Napoli e Il processo di Verona.
L'autore cerca di fare i conti con un labirinto di specchi, come lo definisce, che contiene il rovesciamento tra realtà e finzione; e cerca di dipanare il gomitolo delle sue storie: inseguendo un personaggio, Waechter, trova Hass, e indagando su Hass scopre Bossi Fedrigotti, e la sua presenza in un film dove recita Domizlaff. La loro vita è quella di clandestini, o di protetti dai servizi segreti, inseguiti da mandati di cattura internazionali, oppure liberi di viaggiare come Priebke, che viene in Italia con un passaporto col proprio nome per incontrare i due ex maggiori delle Ss.
Quale è la morale che si può trarre da questo libro, che ci presenta la vita quotidiana, le parentele, i legami, le connessioni tra mondi vicini e insieme lontani? Tedeschini Lalli, dopo aver cercato di trovare un perché all'intreccio delle biografie degli ufficiali tedeschi a contatto col cinema italiano, conclude che le loro storie raccontano molto ma non spiegano quasi niente.
La verità è che c'è sempre qualcosa di casuale e di imponderabile in ogni vita umana, anche in quella di assassini seriali. Non esiste un complotto dei servizi segreti o degli ex nazisti; è il mondo ad apparire un caos in cui si cerca di trovare una coerenza tra cause ed eventi. E quando qualcuno crede di avervi trovato un qualche ordine, questo subito appare instabile e incompleto.
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di Daniele Autieri
la Repubblica 22 FEBBRAIO 2021
Secondo l'Ispra, appena il 30% del reticolo sotterraneo della zona Est della città è stato mappato. Molto deve ancora essere scoperto
Quando alle quattro del mattino le truppe tedesche circondarono il quartiere, molti di loro si rifugiarono lì. Per i partigiani e larga parte della popolazione del Quadraro, quei cunicoli sotterranei, lunghi chilometri, così capillari da raggiungere i confini di San Giovanni, erano divenuti da mesi riparo e strumento per organizzare la resistenza contro l'invasore nazista.
Ecco perché, all'alba del 17 aprile del 1944, i soldati tedeschi guidati da Kappler misero in atto l'operazione Balena, rastrellando il quartiere, arrestando circa duemila persone e deportandone nei campi di concentramento quasi 700.
Nella storia di quella resistenza, che valse al municipio VII della Medaglia d'Oro al Valor Civile (17 aprile del 2004) la città sommersa è un protagonista silenzioso, come i tunnel scavati dai ribelli siriani nel sottosuolo di Damasco o ancora come Mole Town, la città sotterranea abitata da talpe figlia dell'immaginazione dello scrittore Torben Kuhlmann.
Il sottosuolo del Quadraro nasce da lontano. Dall'Antica Roma, quando il tufo veniva scavato e utilizzato per costruire la capitale dell'impero. E poi ancora molti secoli dopo passando dalla roccia alla pozzolana, e dalle domus alle palazzine degli anni '40 e '50 del secolo scorso edificate dalle famiglie di sardi e siciliani arrivati nella grande città in cerca di fortuna.
Al mausoleo di Coriolano, scoperto sotto via del Quadraro, si è aggiunto negli anni un reticolo di cunicoli capaci di raggiungere anche tre metri di diametro che corrono ad una profondità di circa sei metri. Decine di tunnel sotterranei che, a parte essere divenuti il rifugio di tanti partigiani, non sono mai stati messi in sicurezza finendo per indebolire la superficie del quartiere.
Oggi, secondo l'Ispra, appena il 30% del reticolo sotterraneo della zona Est della città è stato mappato. Molto deve ancora essere scoperto, da qui il rischio ancora più elevato per le nuove costruzioni spuntate senza una reale pianificazione urbanistica.
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di Umberto Gentiloni
la Repubblica 24 MARZO 2024
Il presidente Sergio Mattarella durante la commemorazione delle Fosse Ardeatine del 2022 (ansa)
Dopo l’8 settembre 1943, la liberazione di Roma diventa un obiettivo dei comandi Alleati sotto diversi punti di vista. Il primo logistico, parte della più ampia valutazione della campagna d’Italia. Il secondo simbolico, in quanto si tratta del possibile ingresso degli Alleati in una delle tre capitali dell’Asse. Il terzo strategico, essendo l’operazione utile a impegnare le forze tedesche altrimenti impiegabili nel contrastare l’apertura del secondo fronte in Europa, prevista per 6 giugno 1944 in Normandia. Secondo i piani degli alti comandi, la presa della Capitale avrebbe dovuto seguire di qualche settimana lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944. Nel contesto della guerra totale, il 23 marzo 1944 i partigiani romani dei Gruppi d’azione patriottica fanno esplodere a via Rasella un ordigno diretto contro un battaglione tedesco dell’undicesima compagnia del reggimento di polizia Bozen. Ventotto soldati muoiono immediatamente; altri cinque nelle ore successive. La sera stessa del 23 marzo, il maresciallo Kesselring propone la fucilazione di dieci italiani per ogni tedesco ucciso. La proposta, approvata dalle più alte gerarchie naziste a Berlino, è immediatamente attuata. Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS e comandante dei servizi di sicurezza tedeschi a Roma, incarica i capitani delle SS Erich Priebke e Karl Hass di radunare per il giorno successivo 330 civili italiani. Pur accorgendosi di avere inserito nell’elenco 335 persone invece delle 330 previste, Priebke e Hass decidono di non rilasciare i cinque prigionieri in eccesso, per non “compromettere” la segretezza dell’azione. Sulle motivazioni basti il richiamo alle parole di Vittorio Foa: «Si uccidevano gli ebrei perché erano ebrei, non per quello che pensavano e facevano, si uccidevano gli antifascisti per quello che pensavano e facevano, si uccidevano uomini che non c’entravano nulla solo perché erano dei numeri da completare per eseguire l’ordine».
Nel primo pomeriggio del 24 marzo i prigionieri sono trasportati da via Tasso, sede del comando delle SS, e dal carcere di Regina Coeli alle Fosse Ardeatine. Kappler ha deciso che le uccisioni siano coordinate direttamente dai capitani Schütz e Priebke. L’ordine impartito ai soldati tedeschi è di non utilizzare più di un minuto per uccidere ognuno dei 335 civili innocenti. I prigionieri sono portati a gruppi di cinque all’interno delle cave; le mani legate dietro la schiena, sono obbligati a inginocchiarsi. Ad attenderli, i tedeschi incaricati di sparare un solo colpo alla nuca del condannato. Il più anziano tra gli uomini uccisi ha poco più di settant’anni, il più giovane quindici.
Ma chi sono le vittime? Perché vengono selezionate? Cosa raccontano le loro biografie spezzate dalla violenza? Un segmento della popolazione cancellato in poche ore. Basta fermarsi sui dati sensibili di un elenco riassuntivo di tipologie possibili: generali e straccivendoli, analfabeti e intellettuali, commercianti e artigiani, un prete e 75 ebrei; monarchici e azionisti, repubblicani e comunisti, altri aggiunti alla rinfusa, per raggiungere il numero stabilito confutando così la logica terribile della rappresaglia in stile nazista. Un’azione organizzata con gli strumenti e le capacità di un sistema complesso: archivi, liste di potenziali oppositori, catene di comando, collaborazione con fascisti e questura, logistica, trasporti, conoscenza del territorio.In anni successivi, il nesso tra l’azione partigiana e la rappresaglia nazista, viene proposto come paradigma di lettura sulla Resistenza e i suoi errori, si arrivò perfino a sostenere che sui muri di Roma fossero comparsi manifesti che chiedevano ai partigiani di consegnarsi preventivamente alle autorità naziste.
Con fatica e tenacia la verità si è fatta strada, la logica degli eventi ha prevalso nelle ricostruzioni della storiografia più qualificata e nelle aule di giustizia che hanno affrontato la vicenda. In questo contesto si inserisce l’epilogo giudiziario che ha coinvolto uno dei protagonisti della strage, il capitano Priebke. Alla fine della guerra, come molti altri criminali nazisti, si rifugia in Argentina, a San Carlos di Bariloche, sotto l’ombra delle Ande. Una vita in disparte con moglie e figli fino a quando – il 6 maggio 1994 - un cronista della rete televisiva statunitense ABC non lo scova a seguito di una soffiata del centro Simon Wiesenthal di Los Angeles. Il giornalista Sam Donaldson lo segue e lo incalza, gli chiede delle sue giornate romane, di un massacro lontano, lo accusa di essere un criminale di guerra.
Priebke nega, poi ammette di aver eseguito degli ordini «contro chi meritava la morte». L’intervista arriva in Italia, scuote coscienze e riapre ferite mai sanate. Il criminale nazista viene estradato, una lunga estenuante stagione di processi e ricostruzioni investe il tessuto civile. La condanna arriva implacabile portando con sé amarezze e dolori.Erich Priebke non aveva cambiato idea, né chiesto scusa del suo terribile passato. C’è voluto del tempo, molto tempo, per ritrovare quell’uomo, sfilarlo dalla quotidianità di una vita normale in un piccolo paese dell’Argentina per condurlo di fronte alle responsabilità che solo la storia riesce a riproporre. Giulia Spizzichino, un’ebrea romana segnata dalle deportazioni e dalla strage delle ardeatine, parte in missione per fare pressione sulle autorità argentine: «Ma chi ero io quel giorno di maggio del 1994 in cui dovevo mettere tutti i miei ricordi in una valigia e partire verso l’ignoto? Era lì che aveva trascorso la sua latitanza Erich Priebke, fin lì avrei dovuto portare la mia angoscia e il mio desiderio di giustizia».
Alla fine, una condanna, faticosa e dolorosa, un verdetto unanime racchiuso in una parola in grado di resistere alle usure degli anni: colpevole. La storia non si può cancellare: il bilancio è solido, i confini certi, le interpretazioni condivise e documentate. Con le sentenze dei tribunali e le analisi proposte da generazioni di studiosi si rinnova il monito di Primo Levi: conoscere per non dimenticare, comprendere affinché mai più si ripeta.
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la Repubblica 17 OTTOBRE 2013
L'ex capitano delle Ss parla delle Fosse Ardeatine: "Esecuzione terribile, ma chi si fosse rifiutato sarebbe stato fucilato". Il sindaco Marino sulla sepoltura: il prefetto lo vieta a Roma e provincia. Interpellanza Pd: "Il boia non si è mai pentito". La salma ora a disposizione della famiglia
ROMA - Nel video-testamento registrato poco prima di morire, Erich Priebke parla dell'eccidio delle Fosse Ardeatine e sostiene che si è trattato di un ordine al quale "non era possibile rifiutarsi". Priebke racconta che l'ordine di eseguire la rappresaglia fu dato al capitano Schultz. "Il capitano Schultz - racconta - fu eletto da Kappler come organizzatore della rappresaglia. Lui era già stato in guerra nel fronte contro i russi ed era più abituato alla morte e alle rappresaglie. Per noi, per me e gli altri, era una cosa terribile". L'intervista è condotta dal suo legale, Paolo Giachini, nella casa romana del 'boia' morto la settimana scorsa a 100 anni. L'avvocato, peraltro, ha anche fatto sapere che quanto è stato divulgato oggi è soltanto "un estratto di un'intervista molto più ampia". Ma sempre sull'eccidio, alla domanda se fosse possibile rifiutarsi, Priebke ha risposto: "Naturalmente no".
"Schultz - spiega Priebke - prima della rappresaglia disse a tutti: questo è un ordine di Hitler che dobbiamo eseguire e chi non vuole farlo, meglio che si metta con le altre vittime perché sarà anche lui fucilato". Il video messaggio si conclude mostrando la frase letta da Priebke nel corso dell'udienza del 3 aprile del 1996 davanti al Tribunale militare di Roma: "Sento, dal profondo del cuore - la dichiarazione letta da Priebke e mostrata nel video messaggio - il bisogno di esprimere le mie condoglianze per il dolore dei parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine... Come credente non ho mai dimenticato questo tragico fatto, per me l'ordine di partecipare all'azione fu una grande tragedia intima... Io penso ai morti con venerazione e mi sento unito ai vivi nel loro dolore".A smentire il testamento di Priebke, però, ci pensa Marco De Paolis, procuratore militare di Roma, che che ha istruito molti processi ad ex criminali di guerra, quasi tutti conclusisi con l'ergastolo: "A nulla vale sostenere - afferma il magistrato - che 'quelli erano gli ordini e dovevano essere rispettati, pena la morte'. Non è vero, è una delle tante bugie. Il militare ha l'obbligo di non adempiere ad ordini palesemente criminosi, illegittimi e assurdi, come quello di uccidere altri soldati che si sono arresi, oppure civili inermi".
'Guai ai vinti'. Nel video-testamento, l'intervistatore, che è lo stesso Giachini, prende le mosse dalla autobiografia dell'ex capitano delle Ss, intitolata 'Vae victis', cioè "guai ai vinti", titolo che viene poi dato all'intera intervista.L'attentato di via Rasella. Ma Priebke, il cui feretro martedì scorso è stato preso a calci e pugni ad Albano Laziale dove la salma era stata trasportata per il funerale, nel messaggio parla anche dell'attentato di via Rasella, che sarebbe stato compiuto apposta dai 'Gap comunisti' per provocare la rappresaglia da parte dei tedeschi e ottenere la rivolta della popolazione. "L'attentato di via Rasella - afferma - fu fatto sapendo che dopo l'attentato viene la rappresaglia poiché Kesselring quando ha preso il suo comando in Italia ha fatto mettere sui muri un avviso che spiegava che qualunque attentato contro i tedeschi era punito con la rappresaglia". "Questo è risaputo - dice ancora Priebke - e loro lo hanno fatto a proposito perché pensavano che una nostra rappresaglia poteva creare una rivoluzione della popolazione".
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L'ira dei partigiani. "Il tentativo di Erich Priebke nel video-testamento di scaricare sui partigiani l'eccidio delle Fosse Ardeatine è assurdo". Così Ernesto Nassi, vicepresidente vicario dell'Anpi di Roma, commenta le parole del criminale nazista contenute nel messaggio del 'boia'. "E' risaputo che i tedeschi odiavano i romani perchè non collaboravano - aggiunge -. Miravano a creare le condizioni perché nei romani si sviluppasse un comportamento contro la Resistenza, ma questo non è mai avvenuto, anzi nella Resistenza ci furono nuovi ingressi. Quella romana è stata una grande Resistenza"."Quelle sono le ultime parole di un vigliacco. Erich Priebke ha ammazzato persone che avevano le mani legate. Nemmeno alla fine ha voluto prendersi le sue responsabilità. E' quella la faccia vera del nazismo. E' come se un ladro desse la colpa ai padroni della casa svaligiata perché avevano lasciato la finestra aperta". Così Harry Shindler, reduce inglese dello sbarco di Anzio e rappresentante in Italia della 'Italy star association', associazione dei reduci inglesi della Campagna d'Italia nella seconda guerra mondiale.
La salma a disposizione della famiglia. La salma, che è sempre ospitata all'aeroporto di Pratica di Mare, è ora a disposizione della famiglia. L'avvocato del 'boia', intervistato da Oltreradio.it, annuncia: "Abbiamo da pochi minuti preso contatto con il console dell'ambasciata tedesca in Italia che in queste ore si sta occupando della questione sepoltura in una riunione con l'ambasciatore. Attendiamo notizie dopo la nostra richiesta che la salma sia mandata in Germania". Ma sul giallo della custodia della salma, il ministro della Difesa, Mario Mauro, a margine di una audizione al Senato ha ribadito: "Il ruolo del ministero della Difesa è di fornire, su richiesta del prefetto di Roma, un contributo logistico ad un problema di ordine pubblico". Mauro ha poi confermato che la salma dell'ex Ss è "ancora lì" anche se, ha poi subito precisato, "sarà una disposizione del prefetto di Roma a modificare questa situazione".Anche Palazzo Chigi interviene sulla vicenda precisando che "i servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica non sono mai stati interessati del caso Priebke". E pure la prefettura di Roma, che ha dato ordine di trasferire la salma di Priebke nell'area dell'aeroporto militare di Pratica di Mare in quanto luogo sicuro e controllato, ribadisce che ciò è stato fatto per motivi di "ordine pubblico" e nega qualsiasi coinvolgimento dei servizi segreti.Il sindaco Marino. "Ho appena ricevuto l'ordinanza del prefetto Giuseppe Pecoraro che contiene il divieto di tumulazione della salma di Erich Priebke all'interno del territorio della provincia di Roma". Così il sindaco della Capitale, Ignazio Marino, in occasione della seduta straordinaria dell'assemblea capitolina dedicata al 70esimo anniversario del rastrellamento del ghetto. Ma il presidente di Radicali italiani, Silvio Viale, consigliere comunale del Pd a Torino, ha chiesto al presidente Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino, di intervenire. Viale sostiene che secondo la legge e il regolamento di polizia mortuaria, la tumulazione dovrebbe avvenire nel Comune in cui si è registrato il decesso, a meno di altre richieste praticabili da parte dei familiari. "Ora, forse, solo un decreto del governo - continua - potrebbe sbrogliare il pasticcio creato da Marino".Pdl su "festival dell'idiozia". Sulla questione, Fabrizio Cicchitto del Pdl ha chiosato: "Se è vero che i familiari di Priebke ne richiedono la salma, diamogliela subito, così finisce questo festival dell'idiozia che ha dato a questo criminale nazista, ai suoi squallidi epigoni italiani e al suo avvocato il massimo di pubblicità e di visibilità".Polemiche su pentimento. Sul pentimento di Priebke, Giachini torna a dire: "Non è vero che non si è pentito. Il mio assistito si è più volte comunicato e confessato in chiesa. Priebke ha incontrato, in forma privata, i familiari di alcuni caduti delle Fosse Ardeatine". La smentita, tuttavia, arriva subito per bocca di Giulia Spizzichino, ebrea di 86 anni con alle spalle una famiglia sterminata ad Auschwitz e nella strage delle Ardeatine: "Giammai - dice - nella vita. Non è mai successo. E' una balla grossa quanto una casa!". Poi aggiunge: "Priebke mi ha rovinato la vita. Semmai potrei perdonarlo io per quello che ha fatto a me. Ma non sono autorizzata a farlo anche per loro".
"Il mostro nell'oblio". "Da alcuni giorni siamo purtroppo costretti a occuparci della morte di un personaggio sulla cui salma non si è ancora trovata una soluzione. Siamo stanchi, è da giorni che inseguiamo una bara. Ora dobbiamo mettere nell'oblio quel personaggio e lavorare sulla speranza per i nostri giovani e per la nostra città". Lo ha detto il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici intervenendo all'assemblea capitolina straordinaria sulla Shoah, riferendosi alla morte di Erich Priebke. Pacifici ha poi invitato l'assemblea a votare la mozione che vieta luoghi per la commemorazione di chi ha commesso crimini contro l'umanità dicendo: "Un luogo di ritrovo dei nostalgici già ce l'abbiamo e si trova a Predappio: ci basta e, se possibile, vorremmo eliminarlo".
Il rabbino amico del Papa. Erick Priebke "ha perso l'opportunità di chiedere perdono", secondo Abraham Skorka, il rabbino argentino amico di Papa Francesco. Intervistato dall'Osservatore Romano, Skorka risponde solo dopo un "lungo silenzio" ad una domanda dell'intervistatrice sull'ufficiale delle Ss che proprio in Argentina aveva trovato rifugio dopo il periodo della Shoah. "Penso - afferma Skorka - che ha perso l'opportunità di chiedere perdono. L'importanza del perdono è ciò che ci rende esseri umani migliori. Tutto qui".Interpellanza Pd. "Il video-testamento di Erich Priebke non aggiunge nulla di nuovo, il boia delle Fosse Ardeatine non si è mai pentito. Per questo l'indignazione nei suoi confronti da parte di tutte le coscienze democratiche è legittima, così come lo sdegno contro chi ha voluto ricordarlo". Lo dice la deputata del Partito democratico Marietta Tidei, prima firmataria di una interpellanza urgente del gruppo Pd sulla vicenda: "Vogliamo capire come sia stato possibile - spiega - che i funerali privati di Priebke si siano trasformati in una manifestazione pubblica e soprattutto come è giustificabile il caos nelle comunicazioni tra le autorità. Ricordo che il Comune di Albano è stato vittima di un episodio increscioso: il sindaco Marini non era stato neanche avvisato che il corteo funebre aveva avuto l'autorizzazione a dirigersi verso quel territorio. Il governo spieghi come sia potuto accadere tutto questo".Fiaccolata ad Albano Laziale. Una fiaccolata si terrà questa sera ad Albano Laziale. Dopo gli scontri e le polemiche per i funerali di Priebke, cittadini e associazioni si ritroveranno con l'amministrazione alle 20.30 in piazza della Costituente, davanti alla sede del municipio, per riflettere su quanto accaduto martedì scorso nella cittadina dei Castelli romani.
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Hanno fatto strage di civili in Italia. Poi sono tornati a casa in Germania, senza mai pagare i loro crimini. Ecco le loro storie
di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Francesca Candioli. Coordinamento multimediale Laura Pertici. Produzione Gedi Visual. Video RBB e BLOND SCRL
la Repubblica 08 LUGLIO 2023
Sono tornati a casa come se nulla fosse accaduto, occultando dietro l’aspetto presentabile l’anima delle belve. Non avevano dimenticato l’orrore di cui erano stati protagonisti: lo tenevano dentro, aspettando che tornasse la loro ora. Quando il Terzo Reich è crollato, all’inizio alcuni – quelli chiamati “i lupi mannari“ - hanno pensato di proseguire la lotta con le armi. Poi è sorta la Guerra Fredda e tutti hanno trovato nuovi nemici e altri modi per riscattare i vecchi camerati. Persone normali, senza rimorsi. Progressivamente non hanno neppure sentito il bisogno di nascondersi e sono tornati a radunarsi tra reduci.
La Germania ha faticato ad affrontare l’eredità nazista. Salvo pochissime eccezioni, l’intero Paese aveva seguito Hitler e per questo sono stati adottati criteri di epurazione molto selettivi: soltanto artefici e carnefici dell’Olocausto sono stati considerati criminali da perseguire. Subito si è creata una distinzione, che è tuttora in voga nella destra, tra i gerarchi del Partito e gli uomini delle Waffen SS, equiparando questi ultimi ai "normali" combattenti delle forze armate. Non si è voluto guardare alla realtà, ancora più drammatica: in Italia come negli altri territori occupati erano stati militari di ogni tipo a commettere gli eccidi: Waffen SS, Wehrmacht, Luftwaffe. A ordinare le stragi di civili e a portarle a termine erano stati volontari e coscritti, soldati semplici e ufficiali. Questa responsabilità in qualche modo collettiva ha contribuito alla rimozione individuale della colpa, permettendo ai massacratori di dormire sonni tranquilli per decenni. Li ha aiutati la volontà dei governi occidentali di non infierire sulla Germania federale, tornata a essere un alleato fondamentale nella sfida con il blocco comunista: i fascicoli dei procedimenti aperti in Italia sono stati murati nel famigerato "armadio della vergogna". E la sensibilità giuridica della magistratura ha spinto a punire soltanto le figure apicali, graziando chi aveva obbedito agli ordini, pur eseguendoli con compiaciuta crudeltà. Poi in mezzo secolo i valori etici sono cambiati e anche la giurisprudenza ne ha preso atto. L’innocenza di uomini come il capitano Erich Priebke, uno dei registi delle Fosse Ardeatine, è stata considerata inaccettabile. E agli inizi del millennio la procura militare di La Spezia, guidata da Marco De Paolis, ha realizzato un miracolo investigativo individuando - grazie soprattutto alle ricerche negli archivi di Carlo Gentile - e facendo condannare centinaia di aguzzini sopravvissuti nel silenzio. L’opera di giornalisti determinati come Udo Gumpel ha scosso le coscienze tedesche. Ma bisogna andare oltre. In questo momento infatti ricordare è doppiamente fondamentale. Perché, come i personaggi delle biografie scritte da Francesca Candioli in questo longform, sono tornati sulla scena europea partiti che non rinnegano quel passato di terrore, conservandolo nei loro simboli e nei loro slogan. Sono i nuovi lupi mannari, che aspettano il momento opportuno per gettarsi sul nostro futuro.
Karl-Heinz Becker (Schwedt/Oder, 1914 - Bargum, 2000)
È il 1970 e a Bargum, un piccolo paesino tedesco immerso nella natura a 30 minuti dal confine con la Danimarca, viene eletto un nuovo borgomastro, il corrispettivo del nostri sindaci. Si chiama Karl-Heinz Becker, ha 56 anni ed è stato democraticamente eletto. A Bargum tutti lo conoscono, anche se non è nato qui, ma nel Brandeburgo. È un imprenditore agricolo, ha quattro figli e sembra davvero un uomo affidabile, a tal punto che viene rinnovato dai suoi cittadini per ben due legislature. Rimane in carica come borgomastro fino al 1982, ma non è l’unico ruolo che ricopre. Per un po’ si occupa anche di caccia, gestendo tutto il settore venatorio del suo distretto. Muore nel 2000, all’età di 86 anni, ed è sepolto nel suo paesino con tutti gli onori. Ignorando però il suo passato. Bargum è molto diverso da Pietransieri, un piccolo borgo arroccato sulle montagne abruzzesi. Li unisce solo il silenzio, lo stesso che ha coperto il passato di Karl-Heinz Becker. A soli 28 anni guidava un battaglione di paracadutisti della Luftwaffe, soprannominato "l’orda di Becker", temerari e fedeli al loro capo fino alla morte. Becker, dopo essere emigrato adolescente in California, è tornato nel Reich dopo l’avvento al potere di Hitler e si è subito arruolato. Partecipa con i suoi parà all’invasione della Polonia, poi alla blitzkrieg in Olanda ed è uno dei protagonisti dell’assalto a Creta, dove riceve la croce di cavaliere e diventa una leggenda tra le truppe d’assalto.
Dopo l’8 settembre 1943 il suo battaglione cala in Italia per fermare l’avanzata alleata. A novembre sono in Abruzzo e Becker trasmette l’ordine di sgomberare Pietransieri: tutti i 600 abitanti devono andarsene. In duecento però scelgono di salire sui monti a 1400 metri e nascondersi nelle masserie della località chiamata Limmari. Credono di essere al sicuro, ma i parà compiono un rastrellamento feroce. È il 21 novembre del ’43 e tutte le persone scoperte nei casolari vengono messe al muro e mitragliate, e gli edifici fatti saltare in aria. C’è chi viene ucciso all’istante mentre sta facendo colazione, e chi invece fucilato in una radura. A terra restano 125 cadaveri. Si salvano solo pochi bambini, alcuni dei quali rimangono soli in montagna e muoiono di stenti. Solo una bambina di 7 anni, Virginia Macerelli, viene recuperata viva dalla nonna dopo alcuni giorni. È la prima grande strage di civili realizzata dai tedeschi in Italia. Finita la guerra, Becker torna in Germania e guarda caso sceglierà proprio un paesino, piccolino e immerso nella natura, come Pietransieri, per ricostruirsi una nuova vita, dove nessuno sa che cosa ha fatto in Italia. E dove gli inquirenti tedeschi e italiani non lo hanno mai cercato.
Klaus Konrad (Berlino 1914 - Scharbeutz 2006)
È il 1969 e Klaus Konrad ha 55 anni ed è all’apice della sua carriera. Dopo tanti anni di militanza politica e una carriera da avvocato e notaio, è riuscito finalmente a conquistare uno scranno al Bundestag, il Parlamento federale tedesco. Rappresenta i socialdemocratici dell’Spd, uno dei partiti più antichi di Europa, messo al bando da Hitler, e ancora oggi alla guida del Paese. La sua scalata politica però è minacciata dagli spettri della Storia. Da due anni gli inquirenti tedeschi gli stanno addosso. La Procura di Gießen lo ha inserito nel registro degli indagati, e sta cercando di ricostruire il suo passato da nazista. Klaus Konrad nasce in una famiglia borghese e studia giurisprudenza a Berlino, ma a 18 anni è già nelle Sa, le prime squadre paramilitari ideate da Hitler. Nel 1937 supera l’abilitazione legale e contemporaneamente si iscrive al partito nazista. Poco dopo viene chiamato alle armi e partecipa alla campagna di Francia, ma non molla gli studi e supera la selezione per diventare magistrato. Nel 1944 lo mandano in Italia, alla sezione comando del 274° reggimento fanteria della Wehrmacht. Il suo colonnello Wolf Ewert lo definisce come un giurista intelligente, versatile ed eloquente. Nel luglio del 1944 si trova a San Polo, sulle colline di Arezzo, ed è proprio il tenente Konrad ad ordinare di rinchiudere una cinquantina di persone, tra civili e partigiani, in una cantina a Villa Mancini. Qui i prigionieri vengono sottoposti a violenti interrogatori con pugni, calci, randelli e tubi di gomma, fino a fargli perdere i sensi. Dopo diverse ore cominciano le fucilazioni a Villa Gigliosi: li obbligano a scavare grandi fosse comuni, poi li fanno allineare a scaglioni sul bordo e li uccidono con un colpo alla nuca. Una volta terminata l’esecuzione, i soldati mettono della dinamite accanto ai corpi e fanno esplodere tutto: hanno la certezza così che non ci saranno superstiti, né tracce delle torture.
Dopo il 1945, Konrad rientra a casa e trova lavoro come assistente nello studio di un avvocato. È l’inizio di una lunga carriera in toga: prima avvocato, poi notaio e nel 1956 diventa amministratore distrettuale della circoscrizione di Eutin, città dove viene eletto nel Consiglio comunale. Nel 1949 si iscrive all’Spd, dirige la federazione locale del partito, poi l’ascesa: deputato al parlamento del Land e dal 1969 al Bundestag. I magistrati tedeschi non disturbano la sua ascesa. Lo assolvono, ritenendo che fosse presente solo alla prima fase della strage di San Polo con "omicidi semplici": un reato prescritto per la giustizia federale. Il procedimento viene archiviato nel segreto nel 1972 e Konrad rimane al Bundestag fino al 1980. Non ha problemi neppure dall’istruttoria aperta nel 1996 dal procuratore militare Marco De Paolis, perché l’identificazione dei responsabili dell’eccidio non ha sufficiente certezza: tutto archiviato nel 2000. Poco dopo, tuttavia, la Procura di La Spezia acquisisce il vecchio fascicolo dell’inchiesta di Gießen e sulla base dei nuovi elementi raccolti è possibile riaprire il caso. Nel frattempo, nel 2004, i giornalisti Udo Gümpel e René Althammer rintracciano Konrad e l’intervistano per la trasmissione investigativa Kontraste. Il servizio crea un scalpore, dato che Konrad è un politico noto. Lui infatti ammette di aver assistito alle torture degli italiani e di non provare rammarico: "Non mi sono mai sentito colpevole: certo le persone erano impaurite, sapevano che quella sarebbe stata la loro fine e non posso negare che non siano stati picchiati. Fucilare 50-60 persone è una cosa che colpisce chiunque. Ma, una volta accertato che erano tutti partigiani, che cosa potevamo fare?" Non è vero: molte delle vittime erano civili. Alla domanda se si fosse pentito risponde: "Sì certo, ma solo perché gli italiani mi tengono sotto controllo". Dopo l’intervista, Konrad si dimette da tutte le sue cariche. Il 31 gennaio 2006, ormai 91enne, viene mandato a processo dai giudici di La Spezia. Solo allora il suo partito decide di sospenderlo in attesa del giudizio. Ma tra rinvii e interruzioni, Konrad non farà in tempo a vedere la fine del processo: il 15 agosto 2006 è morto nel suo letto.
Georg-Hennig Hans von Heydebreck (Potsdam 1903 – Ahrensburg 1976)
Georg-Hennig von Heydebreck ha solo vent’anni quando l’8 novembre 1923 si schiera con altri cadetti al fianco di Adolf Hitler nel Putsch di Monasco contro la Repubblica di Weimar. Il primo tentativo di prendere il potere fallisce, ma nel 1935 verrà premiato per il sostegno al Fuhrer con una delle decorazioni più prestigiose del Partito nazista, pur non essendo iscritto. Una medaglia per la sua uniforme, molto imbarazzante da giustificare quando nel 1947 verrà valutato dalle commissioni di denazificazione: si scuserà, sostenendo di non essersi reso conto di aver partecipato ad un’azione illegale e di aver ricevuto l’onorificenza senza averla richiesta. La Germania gli crederà e il procedimento verrà archiviato. Ma, per tutta la vita, Heydebreck porterà un altro segreto con sé. Erede di una famiglia prussiana di proprietari terrieri e ufficiali, ha la carriera militare nel sangue: partecipa nel 1940 all’invasione della Francia e poi a quella dell’Urss. Nel 1943 diventa colonnello e nell’aprile del 1944 si trova in Toscana, dove gli viene assegnata il comando di un reggimento panzer della divisione Hermann Göring. Ed è proprio in Italia che Heydebreck partecipa a diversi rastrellamenti di civili e partigiani, come quello di Vallucciole, una piccola frazione in provincia di Arezzo. Dopo alcuni scontri con la resistenza, qui il 13 aprile 1944 i tedeschi decidono di fare terra bruciata: sono Heydebreck e i suoi uomini a dare inizio alla carneficina. A Vallucciole e dintorni vengono massacrati oltre 100 civili, la metà dei quali donne. Alcuni vengono rinchiusi nelle loro case e mitragliati, altri messi al muro o bruciati vivi. Nessuno sopravvive al massacro. Fra le vittime c’è Angiola Gambineri, rinvenuta nascosta dietro ad un armadio con il suo bimbo di due mesi: li hanno uccisi con un colpo al petto. Le violenze sono talmente gravi da smuovere anche Mussolini in persona, che chiede spiegazioni all’ambasciatore tedesco. La Wehrmacht avvia un’indagine, ma i fatti vengono dissimulati e minimizzati.
Quando finisce la guerra Heydebreck è in ospedale per i postumi di un ferita: in Baviera viene fatto prigioniero dagli americani, ma poco dopo torna libero e può cominciare una nuova vita. Nel 1948 apre un impianto di vulcanizzazione di pneumatici, per poi trovare un lavoro più adatto a lui nella fabbrica automobilistica Daimler Benz. Ma la carriera militare gli manca e così si arruola nel Bundeswehr, l’esercito della Repubblica federale, dove gli vengono riconosciuti i gradi di colonnello. Nel 1956 si dedica alla politica, iscrivendosi alla Cdu, il partito democratico cristiano di cui farà parte anche Angela Merkel. Segue le orme del fratello avvocato Claus-Joachim che, oltre ad aver aiutato l’ex maggiore delle SS Walter Reder nella sua difesa durante il processo del 1951 a Bologna, è diventato un uomo di punta della Cdu: prima presidente del Parlamento regionale del suo Land, e poi ministro sia dell’istruzione che della giustizia. Nessuno ha mai cercato Georg-Hennig Hans von Heydebreck per il suo passato: morirà con il suo segreto nel 1976.
Max Adam Saalfrank (Baviera 1911 – Baviera 1993)
Figlio di un carpentiere, dopo la scuola media viene assunto come apprendista tipografo in un piccolo quotidiano locale. Nel 1939 si iscrive al partito nazista e lavora nel giornale Bayerische Ostmark, l’organo regionale ufficiale del partito. Entra nelle SS e si converte al gottgläubig: una religione ispirata dal Reich per affrancarsi dalla chiesa cattolica o protestante, che sosteneva l’esistenza di un essere superiore. Nel 1934 viene subito istruito alla violenza e fa parte delle guardie del campo di concentramento di Dachau. Con il suo reparto partecipa alla Notte dei lunghi coltelli, la resa dei conti tra corpi armati hitleriani, eliminando armi alla mano i rivali delle Sa, l’originario servizio d’ordine del partito. Saalfrank per diversi anni porta lo stemma del teschio sulla divisa, diventando sottotenente nei reparti corazzati Totenkopf, Testa di morto.
All’inizio dell’estate del 1944 è in Italia ed è al comando della 5a compagnia del battaglione esplorante guidato Walter Reder della 16a divisione di fanteria meccanizzata Reichsführer SS. È un ufficiale di assoluta fiducia, e Reder lo nomina come suo sostituto durante l’eccidio di Monte Sole. È lui a dirigere, direttamente in campo, la strage che porterà all’uccisione di circa 770 civili in pochi giorni nel cuore dell’Appennino bolognese. Per aver partecipato a diverse azioni, come quella di Monte Sole, riceve un’altissima decorazione su proposta dello stesso Reder: la croce tedesca in oro. Finita la guerra, di lui si perdono le tracce. In qualche modo torna a casa, come gran parte dei nazisti che, dopo il conflitto, rientrarono nelle loro città d’origine. Saalfrank non si fece mai riconoscere, pur non avendo cambiato nome. Tornò in Baviera, e molto probabilmente visse proprio lì. Nessuno lo ha mai cercato e ha potuto trascorrere una vita nell’ombra fino alla morte, avvenuta nel 1993 in una piccola città termale della Baviera.
Franz Schmidt (Bassa Sassonia 1915 – Amburgo 1971)
"Can’t you see the witch, can’t you see the witch by my side". Stanno finendo gli anni ’60 e questo è il ritornello di The Witch, un singolo che spopola tra la beat generation tedesca. È passato alla radio per la prima volta nel 1968, e a cantarlo sono i The Rattles, l’unico gruppo locale che ha avuto l’onore di esibirsi allo Star Club di Amburgo, la mecca del rock che ospita solo star internazionali. Da quel momento la loro fama è cresciuta, per tutti sono diventati i Beatles tedeschi e vengono contattati dai veri Beatles per aprire i loro concerti. Ma è nel 1970 che il loro nome attraversa l’oceano, proprio con il singolo The Witch, diventando una delle cento canzoni più ascoltate e più vendute in America del periodo. Dietro il successo planetario dei The Rattles, c’è un musicista tedesco: Franz Schmidt-Norden, cacciatore di talenti per l’etichetta Ariola Records, poi inglobata dalla Sony. Per ora ha già arrangiato le canzoni di tantissimi gruppi locali, ma il botto lo ha fatto con i The Rattles. È lui a scoprirli e a fargli registrare i primi dischi, diventando di fatto uno dei produttori più famosi in Germania.
Nessuno sospetta che Schmidt-Norden sia un criminale di guerra. La sua storia comincia anche in questo caso dalla musica. Quando Hitler sale al potere nel 1933, Schmidt ha 18 anni ed è nella banda musicale della marina militare. Nel 1941 fa un salto di carriera e diventa il direttore d’orchestra per il quartier generale delle Waffen-SS di Berlino, pur non essendo iscritto al partito nazista. È un punto di svolta: in questo nuovo ruolo Schmidt ha la possibilità di sviluppare un programma di musica classica molto ambizioso. Durante un concerto alla Berliner Philarmonie fa eseguire la quinta sinfonia di Anton Bruckner e si vocifera che Herbert von Karajan lo abbia lodato pubblicamente per la sua bravura. Schmidt è infatti diventato in poco tempo uno dei giovani direttori d’orchestra più apprezzati nella Germania nazista. La guerra però ha bisogno di soldati e nel 1944 viene mandato al fronte in Italia con la 16a divisione di fanteria corazzata Reichsführer SS e i gradi di capitano. Si ritrova a essere l’assistente del maggiore Helmut Looß, al comando della lotta antipartigiana. All’alba 29 settembre 1944 è alla Creda, una piccola frazione di Monte Sole, sull’Appennino bolognese, alla guida di una squadra d’assalto intenzionata a fare terra bruciata. Dopo aver radunato una novantina di persone nell’aia di una grande casa colonica, li fa andare tutti sotto il porticato di una stalla e piazza una mitragliatrice su un carro agricolo. Passano dai 20 minuti alle due ore, come riportano i pochi sopravvissuti, poi il musicista diventato capitano dà l’ordine: "Aprite il fuoco!". Dopo le raffiche, i suoi soldati lanciano bombe a mano sulle persone e ad alcune sparano alla nuca: ne ammazzano 69, tra cui Valter Cardi, un neonato di soli 14 giorni. Per questa e altre operazioni, Schmidt riceve la croce di ferro di seconda classe e qualche settimana più tardi rientra in Germania per riprendere la direzione della sua orchestra. Finita la guerra, viene sottoposto al processo di denazificazione, ma il suo profilo non è ritenuto pericoloso: sembra solo un musicista. Schmidt continua la sua vita, senza neppure cambiare nome, aggiungendo però un secondo cognome: Franz Schmidt-Norden. Vive ad Amburgo e lavora per la Philips, ma la sua carriera impenna quando nel 1961 entra nell’Ariola Records, e poco dopo scopre i The Rattles. Nessuno ascoltando le canzoni di questo nuovo promettente gruppo tedesco, può immaginarsi che dietro al loro successo ci sia un uomo che ha fatto uccidere a sangue freddo decine di persone.
Wolf Ewert (Pomerania, Germania 1905 – Assia, Germania 1994)
Wolf Ewert nasce in una famiglia di vecchi proprietari terrieri e alla fine delle elementari viene iscritto in un collegio militare a cinquecento chilometri da casa. A 19 anni entra nell’esercito e prosegue la sua carriera nelle minuscole forze armate di Weimar: si sposa con la figlia di un generale e ha quattro figli. Con l’arrivo del nazismo è uno dei pochi ufficiali di carriera e viene subito promosso. La guerra lo vede impegnato sul fronte russo e in Ucraina assiste alle rappresaglie contro ebrei e partigiani sovietici. Ne parla spesso nel suo diario di memorie, dove inserisce anche alcune fotografie di impiccagioni. Viene trasferito nel nostro Paese e prima di partire va a vedere la Madame Butterfly di Giacomo Puccini. Ewert ama la cultura classica: conosce il greco e il latino. Nel suo diario non ci sono gli stereotipi anti-italiani tipici di altri ufficiali tedeschi, anzi si trovano espressioni di ammirazione per il mondo mediterraneo. Ha anche delle velleità artistiche e tra un’operazione e l’altra dipinge acquerelli con paesaggi o scene di vita militare.
Nell’estate 1944 è colonnello a capo del reggimento granatieri 274 della Wehrmacht e il 30 giugno incontra per la prima volta i partigiani tra la Toscana e l’Umbria. La sua auto viene danneggiata e una pallottola colpisce il suo berretto senza ferirlo. Un agguato da cui scaturirà la strage di San Polo del 14 luglio 1944. Quel giorno Ewert si trova al comando a Villa Mancini, sulle colline di Arezzo, quando i suoi soldati catturano una cinquantina di civili e ribelli in una base partigiana. Un testimone ha riferito le sue parole davanti ai prigionieri: "A terra quei porci, fateli fuori tutti!". Gli italiani vengono prima torturarti con calci, pugni e tubi di gomma, poi il colonnello dà l’ordine di fucilarli uno per uno con un colpo alla nuca. Gli fanno scavare le fosse, poi li allineano sull’orlo e li ammazzano. Alla fine gettano bombe tra i corpi. Quando termina la guerra resta in prigionia per pochi mesi e si stabilisce con la famiglia nell’Assia del Nord. Sono tempi duri e trova lavoro come manovale, poi ottiene un posto come dirigente pubblicitario per la Volkswagen, impiego che mantiene fino alla pensione. Nel 1967 viene indagato dalla Procura di Gießen per la strage di San Polo, che però archivia il procedimento. Il colonnello ammette di avere ordinato le esecuzioni, senza dare indicazioni precise su come condurle. Ma la legislazione dell’epoca non lo considerava un reato. Mentre la procura ritiene di non potere provare la sua responsabilità nelle torture, nell’avere sepolto persone ancora vive e nello scempio dei cadaveri con gli esplosivi. Così l’ex colonnello è rimasto sereno in libertà a godersi la vecchiaia, fino alla morte nel 1994.
Walter Reder Freiwaldau 1915 – Vienna aprile 1991
È il 24 gennaio del 1985 e Walter Reder è appena atterrato in Austria all’aeroporto Graz-Thalerhof, grazie ad un volo militare italiano. Ad attenderlo sulla pista di atterraggio c’è Friedhelm Frischenschlager, il ministro austriaco della Difesa. Dopo oltre 30 anni di prigionia nel carcere vista mare di Gaeta, il maggiore delle Ss Walter Reder, che si è reso responsabile di alcuni tra i più sanguinosi massacri in Italia, torna a casa a quasi 70 anni. La stretta di mano con il ministro, che lo accoglie come un eroe, crea un caso internazionale e una crisi di governo. Reder trascorre i suoi ultimi anni di vita in Carinzia, riprende a frequentare i suoi vecchi amici durante i raduni di ex reduci delle SS e, come prima cosa, ritratta il suo pentimento. A pochi mesi dal suo arrivo in Austria, dichiara alla stampa che non deve giustificarsi di nulla e che le richieste di perdono e di scuse che aveva mandato alle vittime italiane erano state solo una mossa del suo avvocato.
Raduni ex SS primi anni 70. @Archivio Gentile
Sei anni dopo il suo ritorno, muore a Vienna il 26 aprile 1991: al suo funerale partecipa un pubblico molto numeroso, tra cui diverse ex SS e alcuni membri dell’estrema destra. Durante l’occupazione tedesca in Italia, Reder trasforma le operazioni contro i partigiani in una sequela di massacri contro la popolazione: Vinca, Valla e Bardine San Terenzo e poi Monte Sole, quella erroneamente chiamata strage di Marzabotto, l’eccidio più grave realizzato dai nazisti nell’Europa occidentale. In pochi giorni furono massacrate 770 persone in oltre 100 località sparse tra le montagne dell’Appennino Bolognese, e ad uccidere gran parte delle vittime furono proprio gli uomini del battaglione esplorante della 16a divisione Reichsführer Ss guidato da Reder. Nel 1945 il maggiore viene fatto prigioniero in Austria e nel 1948 estradato in Italia. Nel 1951 il processo celebrato a Bologna lo condanna all’ergastolo.
Campo sportivo di Oradea, 1944 Walter Reder, comandante del reparto esplorante
della 16a divisione SS, si congratula con i militari che sono stati appena decorati dal
comandante di divisione
Per due volte, prima nel ’67 e poi nel ’84, l’ex ufficiale scrive una lettera di perdono ai cittadini di Marzabotto. I familiari delle vittime e i superstiti con un referendum decidono in entrambi i casi di respingere il suo appello. In Italia Reder è il simbolo vivente dei crimini nazisti. Ma in Germania e Austria viene lanciata una campagna di solidarietà, presentandolo come un martire, un capro espiatorio, un sepolto vivo in ostaggio dei comunisti italiani. Nel 1980 anche da noi le cose cominciano a cambiare e il tribunale militare di Bari gli concede la libertà condizionale, riconoscendo "un sincero ravvedimento". Il rilascio definitivo è previsto nel 1985. Ma dopo una serie di trattative che coinvolgono il governo di Vienna e il Vaticano, l’allora premier Bettino Craxi decreta l’estradizione in Austria sei mesi prima della fine della pena.
Willfried Segebrecht (Anklam, Germania 1919 - Kirchheim unter Teck, Germania 1993)
Mobili, politica e sport, ma soprattutto l’incontro giusto al momento giusto. A Willfried Segebrecht il dopoguerra offre un’opportunità straordinaria. Si è appena stabilito a Kirchheim unter Teck, vicino a Stoccarda, e la fortuna gli fa incontrare Willi Achim Fiedler. Il celebre ingegnere aeronautico è stato tra i padri dei razzi V1 lanciati contro Londra e nella Germania in macerie ha appena aperto una fabbrica di mobili, ma nel 1948 il governo americano gli chiede di trasferirsi negli States per guidare i progetti missilistici. Fiedler ha bisogno di lasciare la sua azienda in mani sicure e si rivolge proprio a Segebrecht, che così diventa un imprenditore di successo. In breve si impone nella vita della comunità ed entra a far parte del consiglio comunale. Si impegna nella promozione dell’attività atletica e collabora a diversi gemellaggi con altre città: è anche tra i soci fondatori di un’associazione locale, la Sfl, che sostiene lo sport e che mantiene ancora la sua foto sul sito web.
Nessuno si preoccupa di approfondire il suo passato. Segebrecht nasce nel nord della Germania, frequenta il liceo classico e a 15 anni è già nella Gioventù hitleriana. Poco dopo si iscrive al partito nazista e nel 1939 entra nelle Waffen-SS, dove diventa sottotenente. Nel 1944, quando viene assegnato alla 16a divisione Reichsführer SS come comandante di compagnia. Partecipa insieme al maggiore Walter Reder ai massacri di civili nell’Italia settentrionale. Il 24 agosto 1944 Segebrecht penetra con i suoi soldati nel villaggio di Vinca, dove vengono rastrellati e uccisi 174 civili: solo 60 delle vittime sono uomini, il resto sono donne, bambini e anziani. A dare man forte ai tedeschi c’è anche la brigata nera fascista guidata da Giulio Ludovici. Qualche settimana più tardi Segebrecht è a Cadotto, una località dell’Appennino bolognese distrutte nel grande eccidio di Monte Sole. Dopo lo scontro con i partigiani della Stella Rossa, sgombera tutti i casolari della zona e ordina fucilazioni di massa. I civili vengono fatti uscire dalle loro case, allineati contro i muri e mitragliati. I cadaveri vengono abbandonati: a terra restano i corpi di 50 persone, anche in questo caso in gran parte donne, bambini e alcuni neonati. Finita la guerra Segebrecht viene preso prigioniero dagli alleati in Austria e rilasciato dopo meno di un anno. Ha trascorso il resto della vita come uno stimato imprenditore, morendo a 72 anni: la sua città gli ha persino tributato una medaglia al merito civico per il suo impegno sociale. Eppure l’ex ufficiale non ha mai smesso di avere rapporti con i suoi vecchi camerati, partecipando ai raduni dell’associazione dei reduci della 16a divisione SS.
Josef Strauch (Alta Slesia 1910 – Magonza 1970)
Josef Strauch è sempre stato un uomo con gli agganci giusti e una rubrica di contatti invidiabile, ma forse questo incarico proprio non se lo aspettava. È il 1965 e, grazie al partito Gesamtdeutscher Block (Gb), è riuscito ad intercedere all’interno del Parlamento regionale per ottenere un nuovo lavoro. Strauch entra così dentro il dipartimento dell’istruzione per gli adulti e viene inserito in una delle principali realtà che promuovono l’educazione democratica dei cittadini. Ma forse ai parlamentari è sfuggito un paradosso. D’ora in poi ad occuparsi della cultura politica di migliaia di persone ci sarà un uomo che sul curriculum vitae ha una condanna per crimini di guerra. Nessuno, però, sembra farci caso e continuerà a ricoprire questo ruolo fino alla sua morte nel 1970.
Josef Strauch nasce in una famiglia della piccola borghesia. Nel 1929 si arruola nella Reichswehr, le forze armate della Repubblica di Weimar. Ufficiale di lungo corso, nel 1944 è in Toscana con la Wehrmacht alla guida del reparto esplorante corazzato della 26a divisione. Ed è affidato proprio a lui il compito di dirigere sul campo "un’azione di ripulitura" contro i partigiani nella zona di Padule di Fucecchio: l’azione inizia la mattina del 23 agosto 1944 e prevede l’uccisione di chiunque venga incontrato. In una manciata di ore vengono ammazzate 175 persone: la vittima più giovane ha 5 mesi, la più anziana 93. Dopo la guerra Strauch viene catturato dagli alleati e consegnato alla giustizia italiana, che nel 1947 lo condanna a sei anni di detenzione per concorso alla strage del Padule. Una pena che dura poco, perché nel 1950 il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, su intercessione dello Stato tedesco, decide di graziarlo e Strauch torna in Germania da uomo libero.
Inizia a lavorare prima come traduttore, poi come capo del personale della sezione locale dell’International refugee organization dell’Onu, e nel 1951 si attiva per l’organizzare dell’assistenza legale a Walter Reder, il maggiore delle SS sotto processo a Bologna. Gli trova un buon avvocato, grazie al sostegno del Zentrale Rechtschutzstelle, un ente creato dal governo Adenauer per sostenere i cittadini tedeschi condannati per crimini nazisti da tribunali stranieri, ma non solo. Ottiene anche l’aiuto di Stille Hilfe, un’organizzazione privata di assistenza che ha favorito la fuga di alcuni dei massacratori del Terzo Reich più famigerati. La sua solidarietà a Reder va oltre: si reca di persona a Bologna a raccontare il processo per le riviste dei reduci tedeschi. La sua attività politica inizia con l’adesione al Gesamtdeutsche Block, un partito nazional-conservatore, dove diventa prima il segretario del suo Land per poi ricoprire lo stesso incarico a livello nazionale. Nel 1962 il partito si scioglie, ma l’uomo degli agganci non si perde d’animo e chiude la sua carriera lavorativa con l’incarico di occuparsi dell’educazione democratica della cittadinanza. Nessuno, dopo la grazia del presidente Einaudi, gli ha mai più ricordato il suo passato, nonostante la sua ostentata militanza nelle reti dei reduci e il sostegno all’imputato Reder: la Germania voleva solo dimenticare le pagine più orrende del suo passato.
Helmut Looß (Eisenach, Germania 1910 - Brema 1988)
Helmut Gessert è stato un insegnante molto stimato e attivo a Brema. Dal 1946 si è occupato della formazione dei più piccoli ed è talmente sicuro di sé che nel 1954, dopo l’approvazione di una legge che concede una generale amnistia ai nazisti, decide di svelare la sua vera identità. Helmut Gessert torna a essere Helmut Looß e rimane tranquillamente in cattedra. Probabilmente i vertici dell’istituto ignorano che il loro apprezzato docente è stato uno dei responsabili della strategia della "terra bruciata" contro i paesi italiani che ospitavano i partigiani. L’apice di una carriera precoce, tutta nel segno della svastica. Helmut Looß già in tenera età si rivela un bambino dotato. Frequenta un istituto dedicato agli allievi più intelligenti delle aree rurali, si iscrive a legge e a filosofia: a 25 anni è già un giovane intellettuale nazionalsocialista che si occupa di formare l’élite amministrativa del Terzo Reich.
Nel 1936 entra nel Sd, il servizio di intelligence delle SS, e nel 1942 viene mandato sul fronte orientale, il grande laboratorio della brutalità hitleriana. Nell’estate del 1944 arriva in Italia e prende il comando della 16a divisione Reichsführer SS, trasformandosi nel maggiore responsabile della lotta antipartigiana in Italia. Qui applica la lezione delle operazioni condotte in Ucraina, guidando i suoi uomini nelle stragi più orrende. È presente a Sant’Anna di Stazzema durante l’eccidio e partecipa alle fasi preparatorie dei massacri di Bardine San Terenzo, Valla, Vinca e Monte Sole. Finita la guerra, il suo nome emerge subito nel corso dei processi ma diversi testimoni sostengono che sia morto in combattimento. Per questo motivo nessuno lo cerca, anche se già nell’estate 1945 ricompare in Germania. Looß riesce ad celare il suo passato: sostiene di aver lavorato per un noto architetto e di aver evitato il servizio militare. Nessuno quindi sospetta di lui e per anni vive indisturbato, occupandosi della formazione di decine di bambini in una piccola scuola di Brema.
Nel 1961 si candida con il partito liberale democratico Fdp per un seggio al parlamento tedesco, mentre nel tempo libero è un socio molto attivo di un’associazione civica. Ma la giustizia non si è dimenticata di lui: nel 1965 viene aperto a Brema un procedimento penale per i crimini sul fronte orientale. Il Comune decide di sospenderlo dal suo incarico di insegnante e di ritirare la sua nomina a pubblico funzionario per frode, permettendogli comunque di ricevere ogni mese metà dello stipendio. L’indagine si conclude con un non luogo a procedere perché i reati sono ormai considerati prescritti. Nessuno gli contesterà mai il suo ruolo nelle stragi di donne, bambini e anziani nei borghi dell’Appennino. Looß muore da uomo libero a Lilienthal nel 1988.
Insegnanti, droghieri, politici, uomini d’affari, pubblicitari e produttori musicali. Tutte vite normali, con i loro problemi e i loro successi, che non hanno quasi niente di speciale, se non un passato da dimenticare. È la banalità del male che emerge, esplorando le storie dei nazisti che hanno continuato a vivere come se nulla fosse dopo aver ammazzato migliaia di civili in Italia. Nessuno di loro, ha mai commesso altri omicidi e quasi tutti dopo la guerra hanno cercato di reintegrarsi nella società tedesca. Come? Oggi sappiamo che molti massacratori hanno dormito sogni tranquilli fino all’ultimo dei loro giorni, non sono mai stati condannati e dopo il 1945 sono tornati semplicemente a casa. Storie così banali da risultare incredibili e che ora, grazie ad un portale online, "NS-Täter in Italien" possiamo conoscere nei dettagli. Un’iniziativa dell’Università di Colonia, finanziata dal ministero degli Esteri della Germania nell’ambito del Fondo per il futuro italo-tedesco e sviluppata con tre partner italiani: la Scuola di pace di Monte Sole, il Parco nazionale della pace di Sant’Anna di Stazzema e l’associazione culturale Archivio Zeta. Si tratta di un progetto che per la prima volta incrocia volti, fotografie, diari e lettere di guerra, ma anche deposizioni processuali e interviste, per restituirci il ritratto dei Täter, gli autori delle principali stragi avvenute in Italia sotto l’occupazione tedesca.
Una delle pagine più buie della nostra storia che costò la vita ad oltre 70 mila italiani: più di 10 mila erano civili e sono stati massacrati in esecuzioni di massa. A coordinare il progetto ci sono uno storico italiano, Carlo Gentile, e un giornalista tedesco, Udo Gümpel, che a partire dagli anni ’90 hanno dedicato gran parte della loro vita, a ricostruire le storie dimenticate di questi massacratori. "In Germania per anni le persone hanno creduto al mito della guerra pulita condotta dalla Wehrmacht, individuando solo alcuni grandi capri espiatori a cui addossare tutte le colpe - spiega Carlo Gentile, docente nel dipartimento di Studi ebraici all’Università di Colonia -. Mentre da noi per diversi decenni è stato quasi impossibile ottenere informazioni. Vedere gli autori delle stragi come dei mostri risponde ad un nostro bisogno di rassicurazione, di distinguere tra il bene e il male - sottolinea Gentile -. È una visione tranquillizzante. Dobbiamo invece accettare che i crimini commessi allora fanno parte della cultura europea e del modo di fare la guerra delle potenze occidentali". Dal dopoguerra ad oggi quasi tutti i responsabili delle stragi in Italia sono rimasti impuniti, e solo a partire dagli anni 2000, quando ormai erano quasi tutti morti, si è tornati ad indagare sul loro passato. Sia in Italia che in Germania si è aperta l’ultima stagione dei processi, che si è conclusa tra luci e ombre con la graduale scomparsa degli imputati tra archiviazioni e condanne mai applicate. "Il cliché della Germania che, a differenza dell’Italia, ha fatto i conti con il passato, è vero solo in parte. La cultura della memoria tedesca di oggi è il risultato di un cammino lungo e tortuoso, che ha coinvolto la società intera e ha distrutto molte famiglie. Oggi questo peso è passato alla generazione dei nipoti e possono forse più di altri costruire una nuova cultura della memoria " racconta Gentile, che vive in Germania da quarant’anni. Dagli anni ’90 ha iniziato ad identificare decine di nazisti per le procure tedesche e italiane, partecipando come consulente a due dozzine di indagini e processi. "I temi legati alla guerra e all’occupazione tedesca in Italia, mi girano intorno da tutta la vita. Per alcuni storici è senso del dovere, per altri come me è la complessità di quel periodo, ancora tutta da studiare, che mi affascina".
Crediti foto ritratti: Bundesarchiv, Rbb.Red Kontraste, Udo Gumpel/René Althammer, Der Spiegel
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di Marco Patucchi
la Repubblica 28 MARZO 2024
Storie di ragazzi partiti dall’Isola e morti nella strage nazifascista di ottant’anni fa
«Aiuta la mamma a superare il grave colpo. Avverti subito il mio intimo amico perché faccia scappare gli altri compagni. State tranquilli: farò il mio dovere. Viva l’Italia libera». Ferdinando ha diciannove anni quando consegna questo bigliettino ad un poliziotto, sperando che possa arrivare in qualche modo al padre. Si trova nel commissariato di Montesacro, quartiere di Roma, dove lo hanno picchiato per estorcergli i nomi di altri antifascisti. Ma lui non arretra di un millimetro, così come non parlerà il papà Gaetano, tradito dal poliziotto. «Padre e figlio vengono rinchiusi a via Tasso, dove Ferdinando subisce ben dodici interrogatori e torture in quindici giorni, ma non cede, mentre il padre ascolta le urla dalla cella vicina».
Siamo nel febbraio del 1944, la Capitale è ancora sotto lo stivale nazifascista, e Ferdinando Agnini, «alto un metro e 75, dinoccolato, capelli castani ondulati», è uno dei fondatori dell’Associazione rivoluzionaria studentesca italiana, insieme a Gianni Corbi e Nicola Rainelli: lui che si è iscritto a medicina all’università La Sapienza, gioca a pallone in piazza Sempione, nuota nell’Aniene, si riunisce con gli amici al bar Bonelli. E che ad appena diciannove anni ha scelto di entrare nella Resistenza: furto di armi nelle caserme, azioni di sabotaggio, linee telefoniche tagliate, chiodi a quattro punte nelle strade, blocco delle attività universitarie. Ferdinando verrà rinchiuso e torturato, appunto, in via Tasso, inserito nella lista di Herbert Kappler, capo delle SS a Roma, a disposizione dell’Aussen-Kommando, e finirà i suoi giorni nel baratro delle Fosse Ardeatine.
La vicenda di Agnini è ricostruita insieme a quella degli altri 334 martiri dell’eccidio nel fondamentale “Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine” di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Einaudi) edito in occasione dell’ottantesimo anniversario della strage. Una Spoon river che alimenta e rinsalda le radici antifasciste del nostro Paese, urgenza mai così attuale come in questi anni di revisionismo e di capziose riletture della storia.
Ferdinando Agnini era nato a Catania e si era trasferito a Roma con la famiglia nel 1934, dettaglio anagrafico che lo accomuna ad un’altra giovanissima vittima delle Ardeatine, Gaetano Butera, decoratore di Riesi (Caltanissetta), morto pure lui ad appena diciannove anni dopo aver aderito ai Gap delle Brigate Matteotti, diventando membro della banda Basilotta operativa al Quadraro, storico quartiere antifascista della Capitale dove sono concentrate molte famiglie di emigranti meridionali. I contatti di Gaetano con la Resistenza erano iniziati nel 1943 quando era sotto le armi assegnato al quarto reggimento carristi in servizio a Roma: anche la sua vita sarà spezzata alle Fosse Ardeatine, dopo le torture nel regno delle tenebre di Kappler in via Tasso: «Ho ricevuto la biancheria macchiata di sangue - scrive il padre di Gaetano nella scheda Anfim - gli avevano rotto il braccio sinistro circa due giorni prima del martirio».
Due giovanissimi siciliani che dunque, così come le altre quattordici vittime dell’eccidio nate nell’Isola, smontano ulteriormente la vulgata di una terra che non partecipò alla Resistenza. «Ragioni storiche impedirono che nell’Isola questa assumesse la forza, i caratteri, soprattutto la partecipazione che trovò al Centro Nord - è, in sintesi, la tesi conclusiva del convegno sulla lotta di liberazione, organizzato a Palermo nel 2016 dall’Istituto Gramsci - perché la Sicilia l’8 Settembre del ’43 si era trovata già liberata dal nazifascismo. Ma essa non mancò di dare il suo contributo al grande evento alla base del futuro assetto civile, politico e costituzionale italiano. Certamente, nei modi in cui ciò fu possibile».
D’altra parte, come sottolinea lo storico Rosario Mangiameli, il partigianato siciliano costituisce «la più numerosa rappresentanza meridionale in tutte le regioni in cui si è combattuta la lotta di liberazione. In alcuni casi, soprattutto quello piemontese, al numero si aggiunge la qualità della partecipazione: parliamo di Pompeo Colajanni, il “comandante Barbato”, e di Vincenzo Modica, “Petralia”, dei fratelli Di Dio, attivi al confine con la Lombardia, protagonisti della liberazione dell’Ossola e personaggi simbolo del partigianato cattolico».
Ferdinando e Gaetano a diciannove anni non hanno esitato di fronte alla dittatura e ne avevano pochi di più (ventitrè) altri martiri siciliani delle Fosse Ardeatine: Leonardo Butticè, nato a Siculiana (Agrigento), entrato dopo l’armistizio nei Gap delle Brigate Matteotti; Sebastiano Ialuna, di Mineo (Catania), che non risponde ai bandi della Rsi e poi, nelle campagne laziali, aiuta tre soldati alleati fuggiti dalla prigionia; stesso destino per Santo Morgano, nato a Militello Rosmarino (Messina) e anche lui arrestato per aver collaborato con quei tre militari alleati. La meglio gioventù dell’Isola, scomparsa nel baratro indicibile spalancato a colpi di mitra il 24 marzo del 1944.
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di Eugenio Colorni
la Repubblica 27 MARZO 2023
Familiari delle vittime alle Fosse Ardeatine nel 1945
Vi sono parole che abbiamo ritegno di adoperare a proposito di Giuseppe Lopresti, solo perché troppo usate nella pietosa retorica dei necrologi. Egli era veramente - e non solo oggi dopo il suo martirio - il migliore, il più serio, il più sensato, il più profondamente puro dei nostri giovani. Aveva 25 anni. Laureato in giurisprudenza, iscritto al secondo anno di filosofia, di una intelligenza aperta a ogni problema della cultura, con un appassionato interesse per i problemi religiosi, si può dire che tutte le vie gli erano aperte.Si era avvicinato a noi con estrema naturalezza, come a una compagnia a cui avesse da lungo tempo appartenuto.
Non sentimmo in lui un'ombra di lontananza e di distacco, per il fatto che era cresciuto in clima fascista. In lui cominciammo ad apprezzare e ad amare questa meravigliosa nuova generazione che oggi combatte al nostro fianco, e che sembra passata come per incanto attraverso i venti anni di fascismo, senza insozzarsene; riportandone anzi un più profondo bisogno di vita intensamente e coscientemente vissuta. Beppe ci aveva avvicinato a questo mondo dei giovani cui siamo ormai così indissolubilmente legati; di questo mondo egli era, in qualche modo, il portavoce e il simbolo.
Nella nostra organizzazione militare si era immediatamente distinto come uno degli elementi più sicuri ed efficienti. Gli erano stati affidati incarichi di estrema fiducia. Benché giovane, benché da poco tempo a contatto con noi, era uno dei nostri capi. E a queste difficili e rischiosissime mansioni sopperiva con totale tranquillità, senza la minima presunzione, con quella modesta allegria che è propria dei forti, cioè degli uomini che hanno la coscienza tranquilla. L'obbligo di sacrificarsi e di fare totale gettito della propria persona, era per lui qualche cosa di evidente, su cui non era neppure il caso di discutere. E lo dimostrò sotto la tortura nazista, assumendo su di sé anche tutta la responsabilità degli altri.
Lo avevamo visto pochi minuti prima del suo arresto, preoccupato per una situazione che andava aggravandosi, intento a prendere tutte le disposizioni per salvare ciò che poteva ancora essere salvato. Non potremo mai dimenticare il suo volto attento e pensoso già presago della morte che lo attendeva. I fascisti godono delle loro inumane vendette: ma c'è una cosa che non sapranno mai, perché non hanno la levatura morale necessaria per comprenderla: cioè di quali valori umani, di quali ricchezze spirituali coi loro ciechi colpi ci privano. Ma questo che è il motivo del nostro cocente dolore, è anche il nostro massimo titolo di orgoglio.
Questo testo uscì postumo sull'Avanti! del 19 agosto 1944
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