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di Marcello Pezzetti

Lo scrittore, fermato il 13 dicembre 1943, è deportato nel campo italiano da dove, il 22 febbraio, è trasferito ad Auschwitz. Ecco la ricostruzione

La Repubblica 20 FEBBRAIO 2024

art 16 01                                                                                         Un particolare della carta di identità di Primo Levi prima della deportazione ad Auschwitz 

«L’alba ci colse come un tradimento… Alla stazione di Carpi... ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio… Vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiú, verso il fondo».

Così descrive Primo Levi, in Se questo è un uomo, la partenza da Fossoli per Auschwitz.

Il chimico Primo era stato arrestato il 13 dicembre 1943 con il medico Luciana Nissim e il chimico Vanda Maestro in un alberghetto di Amay, sul Colle de Joux, dove si trovavano, con Guido Bachi e Aldo Piacenza, per organizzare la loro partecipazione alla lotta contro il fascismo. Luciana, Vanda e Primo, ebrei, si conoscevano da diversi anni, perché facevano parte di uno straordinario gruppo di giovani intellettuali antifascisti che si radunava regolarmente presso la biblioteca della scuola ebraica di Torino.

«Quando ci hanno arrestati… noi abbiamo detto che non eravamo dei partigiani o dei banditi, ma eravamo degli ebrei nascosti», ha testimoniato Luciana, come del resto avrebbe confermato Primo. Solo nel carcere di Aosta iniziarono a comprendere la devastante centralità della politica antiebraica nazi-fascista, a prendere coscienza del fatto che «… forse per gli ebrei... non era aria. Prima no, prima non avevamo grande idea di quello... non sapevamo... non ce lo chiedevamo, devo dire».

Dopo circa un mese furono inviati a Fossoli, dove, nel luogo in cui si trovava un campo di concentramento per prigionieri di guerra, il 5 dicembre era stato istituito dalle autorità italiane il campo di concentramento nazionale per ebrei, in base all’Ordinanza di polizia del Ministero degli Interni del 30 novembre.

art 16 02                                                                                                                Le amiche di Primo Levi: Luciana Nissim e Vanda Maestro 

A partire da questa data, iniziarono ad essere inviati in questo luogo, autonomamente gestito e sorvegliato dagli organi di Polizia italiani, gruppi sempre più numerosi di ebrei arrestati in tutto il territorio della RSI. Una illuminante descrizione del campo in questa prima “fase italiana” si deve proprio a Luciana, in una rarissima testimonianza rilasciata sui resti delle baracche del campo agli inizi degli anni ’90: «Vedo un posto verde, con della gente. Niente di drammatico.

Un campo piccolo, con il sole, con della gente che si muoveva, faceva le sue cose. Probabilmente si vedeva al di fuori delle persone, libere. Questo sì, colpiva questa gente che era fuori dai fili spinati. Ma non c’era quest’aria di terribile disgrazia, anche se oggi sembra un po’ grottesco». Questo ingannevole clima di tranquillità, tale da rendere la situazione quasi “normale”, venne descritto da diversi testimoni arrivati anche nei mesi successivi, che qui raggiunsero o furono raggiunti da altri membri del proprio nucleo familiare di cui non avevano più notizie.

Uno di loro, Nedo Fiano, arrivò a sostenere: «Non voglio esaltare il campo di Fossoli, per l’amor del cielo… ma l’arrivo qui dal carcere (le Murate di Firenze) ebbe un vissuto estremamente favorevole. Qui c’era un po’ di verde, degli alberi…», e un altro, Alberto Sed, disse che «Sembrava una vita normale».

Ulteriori motivi di illusione furono la mancanza di personale nazista; la costante e rassicurante presenza del parroco di Fossoli, don Francesco Venturelli, munito del permesso di entrare per occuparsi dei convertiti al cattolicesimo, ma che prestò aiuto anche a molti ebrei “puri”; il contatto, sempre più sistematico, con alcuni abitanti del luogo che svolsero “funzioni speciali” (fornaio e barbieri); l’organizzazione interna della vita affidata agli stessi prigionieri, che gestirono autonomamente le varie mansioni (capo campo, vari capo baracca, responsabili dell’alimentazione e della cucina, delle attività culturali e addirittura “ludiche”); l’assenza, infine, di maltrattamenti da parte del personale di sorveglianza (carabinieri, uomini della PS e della Milizia), in particolare del direttore del settore ebraico del campo, Domenico Avitabile, vicecommissario di Pubblica sicurezza.

Questa fu la grande illusione che vissero i tre giovani intellettuali giunti dal carcere di Aosta, che fecero vita comune fino alla deportazione e ai quali si aggiunse Franco Sacerdoti, ebreo napoletano trasferitosi a Torino e arrestato in Val di Lenzo. «Stavamo sempre insieme noi quattro — raccontò Luciana –, facevamo le cose che dovevamo fare, accoglievamo la gente, stavamo a chiacchierare insieme. Non ricordo particolari melanconie o preoccupazioni… eravamo forti, giovani… Aiutavamo la gente per quanto possibile, volevamo bene agli amici. Non c’erano sacrifici particolari, si stava insieme con gli amici o le famiglie. Non lo ricordo come un periodo duro, spiacevole… Certamente la gestione del campo la facevamo noi. Io e altri capo baracca suddividevamo i compiti, ma non era un lavoro coatto. Il capo del campo, Avitabile, veniva a chiacchierare amabilmente con noi».

Nemmeno l’arrivo di sempre più numerosi blocchi familiari ebraici e la presenza di numerosi anziani, tra cui un folto gruppo proveniente dalla casa di riposo israelitica di Venezia, suscitò in quei giovani forti dubbi sulla sorte loro riservata. «Io non avevo il senso dell’ebraismo, della persecuzione; me l’ero aggiustata così, che io era una combattente, subiva l’infelicità, i dolori, i rischi di chi aveva deciso, in quel momento, di combattere… Per me non era il preludio della morte. Era un momento di passaggio fra una vita e un’altra. Insomma, la vita continuava».

La convinzione di quasi tutti era che la guerra sarebbe presto finita e che, quindi, in un modo o nell’altro tutti sarebbero ritornati a casa. Un fatto ancor più convincente avvenne prima della fine di gennaio: giunse in campo la notizia che i giovani medici appena laureati potessero accedere all’esame di Stato. Luciana, con l’aiuto di Avitabile, fece domanda per essere ammessa. E il 10 febbraio la Prefettura di Torino concesse anche all’“ebrea italiana internata” Luciana Nissim il permesso di sostenerlo. Luciana, però, non ricevette mai tale comunicazione, ed alcuni giorni dopo venne deportata.

A gennaio, infatti, le autorità tedesche e quelle italiane si erano accordate sul fatto che le prime avrebbero potuto procedere alla deportazione nei campi del Reich degli ebrei arrestati nel territorio della RSI. Dopo l’invio di due piccoli trasporti di ebrei anglo-libici a Bergen-Belsen, da usare come “merce di scambio”, il 22 febbraio si procedette alla prima deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Nessuno se l’aspettava: «Come scrive Primo — testimoniò Luciana –, noi stavamo mangiando, sono arrivati gli italiani: “Domani mattina partite!”. Ci stavamo facendo uno spaghetto, abbiamo smesso di mangiare questo spaghetto. “Domani si parte per la Germania!”. Ce l’hanno detto in quel momento lì, dalla sera alla mattina. E lì è stato il momento della... fine». Il mattino dopo, alla stazione di Carpi, i quattro amici appresero la loro destinazione: Auschwitz, “un nome privo di significato”. Giunti al Brennero, riuscirono a buttare dal vagone dei biglietti scritti a mano a familiari e ad amici comuni, che arrivarono a destinazione.

Giunti alla Judenrampe di Birkenau, furono divisi. Scrisse Primo: «Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita». Tutti e quattro furono selezionati per il lavoro coatto. Primo e Franco vennero portati in camion a Buna-Monowitz; Luciana e Vanda furono avviate, a piedi, a Birkenau. La sorte di Primo è conosciuta da tutti; Franco morì nel gennaio del 1945 durante la marcia di evacuazione. Luciana venne impiegata come medico nel Frauenlager del campo, quindi trasferita in un sottocampo all’interno del Reich, da dove, prima della liberazione, riuscì a fuggire.

Alcuni anni dopo sarebbe diventata una famosa psichiatra. Vanda, purtroppo, come disse Luciana, «…è stata una sommersa subito. Le si sono subito gonfiate le gambe, si trascinava a stento. Un mese dopo l’hanno selezionata». Un’altra dottoressa italiana deportata, la triestina Bianca Morpurgo, riuscì a somministrarle un barbiturico: «All’ultimo momento le ho dato un tubetto di Gardenal! È stato un vero strazio», scrisse Bianca a Luciana in una lettera alla fine del 1945.

Luciana raccontò che le ultime parole che sentì da Vanda furono: «Se avrai una bambina, chiamala Vanda» e questo avvenne: «Ho avuto una bambina che è nata morta. La bambina che ho avuto, che è nata morta, si chiamava Vanda».

Degli oltre 600 ebrei deportati ad Auschwitz-Birkenau con il primo trasporto da Fossoli ne tornarono 25, i soli sopravvissuti.

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