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Lo storico della Shoah, attraverso il racconto di sopravvissuti, 

soldati tedeschi e testimoni, ricostruisce quella terribile giornata. Con qualche verità inedita

di Marcello Pezzetti

“Quella matina se semo svegliati e abbiamo visto de le pattuglie de’ tedeschi giù al portone. Sapevano nome, cognome di tutti quanti i componenti della famiglia. Erano violenti…” (Leone Sabatello, vittima della retata). “Erano violentissimi, erano truppe scelte per fare questo lavoro” (Sabatino Finzi, vittima della retata).
“Ci diedero dei foglietti scritti a mano su cui erano segnati i nomi e gli indirizzi delle persone da arrestare. Dovevamo – lo posso dire apertamente – arrestare gli ebrei” (Karl Sommer, unità Seeling).“Era evidente che stavamo portando via famiglie intere. Mi ricordo che c’erano anche dei neonati” (Emil Karl, unità Seeling).
“Entrarono i tedeschi. Mio padre, nel frattempo, s’era rinchiuso in bagno. Fu mio zio, prontissimo, a tirare fuori la carta d’identità con il nome: Terracina Augusto. Ma loro cercavano Della Rocca Rubino, mio padre, appunto. I tedeschi si rassegnarono…” (Rav Vittorio Della Rocca).
“Durante gli arresti ebbi l’impressione che i soldati non mostrassero l’interesse dovuto e che trattassero la questione in modo estremamente superficiale. Sono convinto che alcuni ebrei, pur essendo in casa, non siano stati arrestati e che poi i soldati abbiano dichiarato di non averli trovati” (Albin Eisenkolb, Kommando di Dannecker).

soldati tedeschiSoldati tedeschi dell’unità Seeling

Lo storico della Shoah, attraverso il racconto di sopravvissuti, soldati tedeschi e testimoni, ricostruisce quella terribile giornata. Con qualche verità 

Queste testimonianze sulla retata del 16 ottobre 1943 a Roma sembrano descrivere due avvenimenti diversi. L’aspetto più sconvolgente, tuttavia, è dato dal fatto che anche le stesse vittime sembrano contraddirsi. Per gran parte del dopoguerra questa immane tragedia è stata prevalentemente descritta sia attraverso le testimonianze di persone che erano presenti, ma non vittime della stessa, sia utilizzando una parte della documentazione italo-tedesca (in alcuni casi con risultati eccellenti, si pensi solo alle opere di Katz o di Debenedetti). 

Ora, per comprendere nella sua complessità la razzia del 16 ottobre, è tuttavia necessario prendere in considerazione e mettere a confronto altre fonti: innanzitutto i racconti di chi è stato arrestato e deportato – ma la quasi totalità di queste persone hanno incominciato a parlare solo a partire da metà degli anni ’90; poi le testimonianze dei persecutori – ma, a causa della scarsa “confidenza” degli studiosi italiani con la lingua tedesca, le dichiarazioni rese da questi nel corso delle istruttorie che hanno avuto luogo in Germania sono quasi del tutto sconosciute –; i racconti dei testimoni non ebrei, in particolare di quelli che hanno prestato aiuto, che per anni hanno taciuto; infine altra documentazione che si è resa accessibile nel corso degli ultimi decenni. Grazie a tutti questi elementi possiamo quindi tracciare un quadro preciso di quel che è avvenuto.

Dopo aver occupato il Paese, i nazisti intendono arrestare e deportare gli ebrei presenti sul territorio italiano, partendo proprio dalla capitale. Per realizzare questo obiettivo, Adolf Eichmann invia a Roma una squadra speciale (Einsatzkommando Italien) composta da meno di dieci uomini, guidata da Theodor Dannecker, un ufficiale delle SS giovane, ma già responsabile della deportazione degli ebrei dalla Francia, dalla Tracia e dalla Macedonia. I vertici diplomatici e militari tedeschi di stanza in città (il console Eitel Friedrich Moellhausen, il comandante della piazza Reiner Stahel, il comandante in capo della Wehrmacht in Italia Albert Kesselringe il capo della Polizia di Sicurezza -Sipo- a Roma Herbert Kappler), cercano tuttavia di ostacolare tale operazione perché ritengono innanzitutto troppo esigue le forze a disposizione, ma anche per le possibili reazioni della popolazione locale, del Vaticano e dell’opinione pubblica internazionale.

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Il biglietto che veniva presentato alle famiglie ebree dai soldati tedeschi durante il rastrellamento

Propongono quindi di impiegare gli ebrei nei lavori forzati, piuttosto che “liquidarli”, ma Berlino respinge sdegnosamente tali richieste, facendo riferimento all’esplicito ordine di Hitler (Führerbefehl) di deportare gli “8.000 ebrei di Roma”. Kappler e Stahel a questo punto mettono a disposizione di Dannecker i loro uomini senza ulteriori esitazioni. Come risulta dal rapporto di Kappler sulla retata, le forze che la effettuano sono composte da 365 uomini: dal piccolo gruppo del Einsatzkommando Italien, dagli uomini dello stesso Kappler (poco più di una dozzina) e da quelli delle tre compagnie di Stahel (Polizia d’Ordine – Orpo –, oltre 300). Di tutti questi, solo alcuni uomini di Dannecker hanno già partecipato al processo di sterminio di massa degli ebrei, come l’SS Albin Eisenkolb, che come componente dell’Einsatzgruppe D in Crimea ha guidato la fucilazione di ebrei e comunisti, e Hans Haage, che a Lublino si è occupato dello smistamento dei beni provenienti dai campi della morte di Belzec, Sobibor e Treblinka (successivamente sarebbe stato assegnato ai campi di Fossoli e di Bolzano).

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Alcuni soldati dell’unità Seeling incaricata dei rastrellamenti

Tranne i membri del SD di Kappler e alcuni delle tra unità di Stahel, come Gustav Klumpp o August Tietje, provenienti dai battaglioni di Polizia 101 e 102, quasi tutti gli uomini assegnati alla retata sono riservisti (contadini, giardinieri, autisti o bottegai) richiamati alle armi nel 1943, che non hanno fino ad ora preso parte ad operazioni antiebraiche.


Per preparare la retata, viene sequestrato l’archivio degli uffici della Comunità ebraica con gli elenchi dei contribuenti, ma Dannecker decide di non far ricorso alla collaborazione di personale italiano, giudicato “inaffidabile”, accetta solo l’aiuto della Questura di Roma che mette a disposizione circa 15 poliziotti che raggruppano gli indirizzi per zone delle persone da arrestare e realizzano elenchi di queste per le singole squadre di arresto.


All’alba del 16 ottobre vengono chiamati all’appello i componenti della Polizia d’Ordine dell’unità guidata dal capitano Seeling, nell’edificio di un convento in via Salaria 227, e delle unità guidate da Horstkotte e da Radfahrn, alloggiate nella caserma Macao. Vengono suddivisi in piccole squadre e informati del fatto che devono effettuare degli arresti. “Una mattina la compagnia fu svegliata molto presto. Horstkotte ci disse che la compagnia era stata incaricata di arrestare gli ebrei negli appartamenti di Roma” (Wilhelm Burmeister, unità Horstkotte). “Posso dire fin dall'inizio che io e tutti i miei compagni non sapevamo prima dell’inizio dell’operazione che sarebbero stati arrestati gli ebrei… Siamo stati adeguatamente informati solo quando ci sono stati distribuiti dei fogli di carta bianca su cui erano scritti i nomi delle persone che dovevano essere portate fuori dagli appartamenti” (Karl Steinemann, unità Seeling). 

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Theodor Dannecker comandante della squadra speciale (Einsatzkommando Italien)
incaricata delle operazioni di deportazione degli ebrei a Roma, Bundesarchiv, Berlin

Le squadre sono composte da tre a sei tedeschi sottoposti agli uomini del SD o ai capo-plotoni. Questi dispongono di un foglietto scritto in italiano da consegnare alle persone da arrestare con le principali istruzioni da osservare. “Sono entrati quattro delle SS, con un foglio in mano in italiano, fotocopiato, dove diceva di prendere tutto: mangiare, gioielli e tutto, che dovevamo andare con loro” (Sabatino Finzi). “Era un foglio bianco, dove c’era scritto: portare soldi, oro, gioie, mangiare per un lungo viaggio…perchè non parlavan l’italiano i tedeschi” (Settimia Spizzichino, vittima della retata).

I gruppi dei persecutori procedono in modo diverso: alcuni prelevano, anche con violenza, tutte le persone che trovano presso un indirizzo, anche ebrei che sono a Roma di passaggio, o anche non ebrei, che dovranno essere rilasciati il giorno dopo. I più si limitano ad occuparsi delle persone segnalate negli elenchi, che spesso non ci sono, senza effettuare ulteriori indagini; altri ancora dimostrano “scarsa solerzia” nello svolgere il compito loro assegnato. “Ero l’unico che capisse il tedesco, che ha tirato fuori la pistola puntata contro noi: “Noi non scherziamo, dillo ai tuoi amici!” (Arminio Wachsberger). “Nei casi in cui gli appartamenti erano chiusi a chiave, non ci siamo preoccupati di verificare la presenza o l'assenza dei proprietari degli appartamenti” (Karl Steinemann, unità Seeling). “Per quanto riguarda la superficialità di questa azione, vorrei anche dire che nel ghetto, ad esempio, gli ebrei si affacciavano dalle case al piano superiore e i soldati non riuscivano ad aprire la portad'ingresso” (Albin Eisenkolb, Kommando di Dannecker). “Io c’avevo ‘na sorella co’ la bambina; gli ho detto: “Questa non è ebrea, è una che abita qua, fa la cameriera e l’ho mandata via”. M’ha creduto” (Settimia Spizzichino). Eccezionalmente altri agenti, pochissimi, sembra diano la possibilità agli ebrei catturati di fuggire, come nel caso di Giacomo Astrologo e della moglie Elena Anticoli, arrestati da un tedesco che, però, dice loro di aspettarlo e sparisce.

Risulta evidente, in ogni caso, che i nazisti non riescono a distruggere completamente l’ebraismo della capitale, per le seguenti ragioni, oltre alla già citata “inadeguatezza” dei persecutori: perché, da un lato, diversi ebrei, grazie alle loro ancor sufficienti possibilità economiche, hanno da tempo lasciato Roma, trovando rifugio nei paesi circostanti, quando non espatriando clandestinamente; inoltre perché molti altri, soprattutto uomini in età lavorativa, in quei giorni hanno abbandonato le loro abitazioni su sollecitazione di amici, conoscenti o vicini non ebrei – che spesso offrono loro anche rifugi, pur precari –; perché un gran numero di persone, appena iniziata la retata, fugge all’impazzata ed evita l’arresto; infine perché viene offerto, da subito, il sostanziale aiuto da parte delle istituzioni cattoliche e da gente comune. “Venne il 16 ottobre e scappassimo tutti. Fu un macello” (Raimondo Di Neris, arrestato e deportato nei mesi successivi). “Il 16 ottobre noi ricevemmo una telefonata. Un funzionario dello stato ci ha avvertiti: “Fuggite!” Siamo subito usciti di casa” (Lello Perugia, arrestato e deportato nei mesi successivi). “Il 16 ottobre accerchiarono el Ghetto e io scappai via. Anvece mio papà rimase lì, dentro casa ando stava. Lo portarono via co mi’ sorella, mi’ madre e co ’na zia che stava dentro casa nostra” (Settimio Piattelli, arrestato e deportato nei mesi successivi). “La mattina, una signora vicino, cattolica, ce bussa. Noi dormivamo tutti: ”Scappate, scappate! Stanno a prende tutti gli ebrei!” Chi scappa di qua, chi scappa là… poi semo andati a dormì da ’e case de i cattolici a Trastevere, ando abitavamo noi” (Ester Calò, arrestata e deportata nei mesi successivi). “C’erano delle persone, dei cattolici che, poveretti, osservavano Ma che avrebbero potuto fare? Non ci potevano aiutare perché noi avevamo la SS vicino” (Lello Di Segni, vittima della retata).

“Prima di mezzogiorno è arrivato al cancello un gruppo di uomini, donne e bambini che piangevano e gridavano: “Aiutateci, aiutateci!”…Li abbiamo fatti entrare… Davanti a una situazione che strappava le lacrime, non abbiamo pensato al rischio che correvamo” (Suor Emerenziana).
“Molti ebrei a Roma avevano già lasciato le loro case prima dell'azione perché si diceva fossero stati avvertiti dell’imminente azione” (Alexander Rohrer, unità Horstkotte). “Almeno la metà di tutti gli appartamenti ebrei erano vuoti. Non è stato possibile trovare le persone nel loro appartamento. L’uomo dell’SD mi ha espresso rabbia per questo. Mi ha detto che l’azione deve essere stata tradita” (Gustav Klumpp). “Sul retro di uno dei caseggiati, dal primo piano, credo, penzolava una corda fatta da quattro o cinque lenzuola annodate. Ne deducemmo che gli inquilini erano fuggiti” (Wilhelm Burmeister). “Il mio gruppo non ha arrestato nessuno. Ritornammo in caserma senza aver concluso nulla” (Hans Hohensee, unità Horstkotte). “Comportamento della popolazione italiana: evidente resistenza passiva, in molti casi addirittura interventi d’aiuto” (Kappler). “L'intera operazione è stata un fallimento” (Hans Horstkotte). È chiaro che la razzia avrebbe avuto un esito ben più catastrofico se Dannecker avesse fatto ricorso alla collaborazione di agenti italiani, in grado soprattutto di identificare gli ebrei che si confondevano col resto della popolazione “ariana”.

Gli arresti durano solo poche ore, non terminano alle 14, come scrive Kappler nel suo rapporto lo stesso 16 ottobre. “Era tutto finito poco prima di mezzogiorno” (Josef Pinders, unità Horstkotte). La razzia non viene dunque interrotta su ordine di Himmler dietro richiesta del Papa, come appare nel film Sotto il cielo di Roma. Sono state catturate 1.259 persone, che vengono trasportate al Collegio Militare, nei pressi del carcere di Regina Cœli, dove Arminio Wachsberger, nominato interprete “ufficiale”, deve convincere i prigionieri a consegnare tutti i loro beni, soldi e oggetti di valore. Dannecker, uomo corrotto come la quasi totalità dei responsabili della persecuzione antiebraica, si appropria di una parte consistente di questi beni. “Facevamo le sigarette con le carte da mille lire… e andavamo pure al gabinetto co quelle, per non darle ai tedeschi” (Enzo Camerino, vittima della retata). Vengono poi rilasciate quasi 250 persone: i non ebrei, i “misti” e i coniugi di matrimonio misto e gli stranieri protetti. I rimasti sono “…in prevalenza donne, bambini, malati, anziani. Ricordo anche che una giovane, Marcella Perugia, partorì un maschietto” (Wachsberger). Questo piccolo innocente non riceverà un nome. Arminio, con grande coraggio e intelligenza, riesce a far inserire alcuni ebrei “puri” nel gruppo delle persone da liberare.

Molti si aspettano che la Santa Sede intervenga prendendo apertamente posizione sull’imminente deportazione degli ebrei, ma ciò, purtroppo, non avviene. “Il Papa – comunica l’ambasciatore von Weizsäcker al Ministero degli Esteri a Berlino – non si è lasciato convincere a rilasciare alcuna dichiarazione pubblica contro la deportazione degli ebrei da Roma, sebbene sembri aver subìto pressioni da più parti... In questa delicata questione egli si è prodigato per non compromettere i rapporti con il governo del Reich e le autorità tedesche a Roma… Possiamo considerare liquidata (liquidiert) questa questione spiacevole nel quadro dei rapporti tedesco-vaticani”.
“Al Collegio Militare eravamo sotto il naso del Vaticano. Essendo tutte donne e bambini, aspettavamo la voce del Vaticano…” (Settimia Spizzichino)
La mattina del 18 ottobre 1.022 persone sono caricate su un treno merci. “Ricevetti l’incarico di scortare, insieme a una quindicina di uomini del mio plotone, il convoglio… Il viaggio prevedeva i passaggi per Bolzano, Königszell, Breslavia e aveva come meta finale Auschwitz. A Königszell fu cambiata la locomotiva. Poiché non lontano da lì abitavano i miei suoceri con mia moglie, chiesi e ottenni il permesso di andarli a trovare per un paio d’ore… Alle cinque del pomeriggio arrivammo ad Auschwitz. Il convoglio si fermò su un binario fuori dal campo” (Gustav Klumpp).
Almeno sette persone muoiono durante il viaggio. Il treno giunge a destinazione il 22 ottobre; il giorno dopo, 826 ebrei sono uccisi col gas. Gli immatricolati sono 149 uomini e 47 donne. Faranno ritorno in 16, 15 uomini e una donna. “Il giorno dopo tornammo con un altro treno in Italia e poi a Roma… Per quanto riguarda la sorte degli ebrei: durante il viaggio di ritorno chiesi al responsabile del trasporto cosa sarebbe successo loro. L’Unterscharführer mi disse che gli ebrei erano già passati per il camino” (Gustav Klumpp).
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Non esistono immagini fotografiche della retata. Fortunatamente, dopo un’accurata ricerca da parte della Fondazione Museo della Shoah di Roma, il figlio di un componente dell’unità Seeling ha deciso di donare alla stessa Fondazione le foto dell’archivio di suo padre. Sono le uniche immagini degli “uomini comuni” che hanno arrestato gli ebrei il 16 ottobre a Roma. 

Esistono, tuttavia, i disegni di Aldo Gay (1914-2004), pittore per passione, che la mattina del 16 ottobre 1943 riesce a scappare dal quartiere di Monteverde evitando, così, l’arresto. Ne approfitta per memorizzare ciò che vede, tra piazza Sonnino e viale Trastevere, e ritrarlo subito dopo attraverso decine di disegni a china e matita. Le sue opere-testimonianza diventano quindi documenti unici che ingrandiscono dettagli, riproducono il contesto, ma soprattutto colmano l’assenza di immagini della retata, entrando così a far parte della memoria storica della città. 



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