Quadraro, settant'anni dopo il rastrellamento il racconto dei sopravvissuti nel libro di Pietrafesa
A settant'anni dalla strage del Quadraro un libro racconta la storia del più imponente rastrellamento organizzato dai tedeschi nella città occupata. «Il comando nazista scelse di colpire una piccola borgata sulla Tuscolana», racconta Luca Pietrafesa, giornalista, autore del libro “Dal Quadraro all’Inferno e ritorno”, edito da Reality Book. «Il Quadraro era una borgata definita con disprezzo dagli ufficiali delle SS 'nido di vespe', perché era qui che i partigiani trovavano rifugio e organizzavano azioni contro gli occupanti». Furono arrestati in più di 1500, deportati in 947. Ancora oggi non è stato possibile accertare il numero esatto delle vittime.
Nelle parole di sei degli ultimi sette sopravvissuti, quell’esperienza viene raccontata con dovizia di particolari, dolore e coraggio: quel coraggio che permise loro di tornare a Roma, al Quadraro, al termine di un viaggio avventuroso durato tre mesi. «Ci caricarono a mo' di immondizia: passavano i camion, quando erano pieni i mezzi partivano e ci portavano al cinema Quadraro. Oggi quel cinema non c'è più ma quell'immagine, quando arrivammo, ce l'ho ben chiara in testa: vidi tutta 'sta massa di persone nel cinema e pensai a quale angheria ci stavano facendo i tedeschi», racconta Romano Levantini che aveva 16 anni, quel 17 aprile del 1944.
All’alba del 17 aprile 1944 gli uomini diretti da Kappler circondarono l’intero quartiere, con l’ordine di chiudere ogni via di fuga. Alle 05.00 in punto scattò il rastrellamento, casa per casa. Dai documenti di Pubblica Sicurezza risulta che furono fermati circa duemila uomini validi, cioè tra i quindici e i cinquantacinque anni. Tra i rilasci nelle ore successive e qualche fuga, ne furono deportati novecentoquarantasette, ritenuti “abili” al lavoro: portati prima nel campo di smistamento di Fossoli, poi trasferiti in Germania, dove furono costretti a lavorare in condizioni disumane.
Il bilancio delle vittime dirette, morte durante quegli oltre dodici mesi di prigionia, e di quelle indirette, decedute a causa delle conseguenze patite dalla deportazione, risulta a tutt’oggi impossibile.
Il Messaggero – spettacolo e cultura, storie. Mercoledì 16 Aprile 2014