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di Marco Patucchi

la Repubblica 28 MARZO 2024

Storie di ragazzi partiti dall’Isola e morti nella strage nazifascista di ottant’anni fa 

«Aiuta la mamma a superare il grave colpo. Avverti subito il mio intimo amico perché faccia scappare gli altri compagni. State tranquilli: farò il mio dovere. Viva l’Italia libera». Ferdinando ha diciannove anni quando consegna questo bigliettino ad un poliziotto, sperando che possa arrivare in qualche modo al padre. Si trova nel commissariato di Montesacro, quartiere di Roma, dove lo hanno picchiato per estorcergli i nomi di altri antifascisti. Ma lui non arretra di un millimetro, così come non parlerà il papà Gaetano, tradito dal poliziotto. «Padre e figlio vengono rinchiusi a via Tasso, dove Ferdinando subisce ben dodici interrogatori e torture in quindici giorni, ma non cede, mentre il padre ascolta le urla dalla cella vicina». 

Siamo nel febbraio del 1944, la Capitale è ancora sotto lo stivale nazifascista, e Ferdinando Agnini, «alto un metro e 75, dinoccolato, capelli castani ondulati», è uno dei fondatori dell’Associazione rivoluzionaria studentesca italiana, insieme a Gianni Corbi e Nicola Rainelli: lui che si è iscritto a medicina all’università La Sapienza, gioca a pallone in piazza Sempione, nuota nell’Aniene, si riunisce con gli amici al bar Bonelli. E che ad appena diciannove anni ha scelto di entrare nella Resistenza: furto di armi nelle caserme, azioni di sabotaggio, linee telefoniche tagliate, chiodi a quattro punte nelle strade, blocco delle attività universitarie. Ferdinando verrà rinchiuso e torturato, appunto, in via Tasso, inserito nella lista di Herbert Kappler, capo delle SS a Roma, a disposizione dell’Aussen-Kommando, e finirà i suoi giorni nel baratro delle Fosse Ardeatine. 

La vicenda di Agnini è ricostruita insieme a quella degli altri 334 martiri dell’eccidio nel fondamentale “Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine” di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Einaudi) edito in occasione dell’ottantesimo anniversario della strage. Una Spoon river che alimenta e rinsalda le radici antifasciste del nostro Paese, urgenza mai così attuale come in questi anni di revisionismo e di capziose riletture della storia. 

Ferdinando Agnini era nato a Catania e si era trasferito a Roma con la famiglia nel 1934, dettaglio anagrafico che lo accomuna ad un’altra giovanissima vittima delle Ardeatine, Gaetano Butera, decoratore di Riesi (Caltanissetta), morto pure lui ad appena diciannove anni dopo aver aderito ai Gap delle Brigate Matteotti, diventando membro della banda Basilotta operativa al Quadraro, storico quartiere antifascista della Capitale dove sono concentrate molte famiglie di emigranti meridionali. I contatti di Gaetano con la Resistenza erano iniziati nel 1943 quando era sotto le armi assegnato al quarto reggimento carristi in servizio a Roma: anche la sua vita sarà spezzata alle Fosse Ardeatine, dopo le torture nel regno delle tenebre di Kappler in via Tasso: «Ho ricevuto la biancheria macchiata di sangue - scrive il padre di Gaetano nella scheda Anfim - gli avevano rotto il braccio sinistro circa due giorni prima del martirio». 

Due giovanissimi siciliani che dunque, così come le altre quattordici vittime dell’eccidio nate nell’Isola, smontano ulteriormente la vulgata di una terra che non partecipò alla Resistenza. «Ragioni storiche impedirono che nell’Isola questa assumesse la forza, i caratteri, soprattutto la partecipazione che trovò al Centro Nord - è, in sintesi, la tesi conclusiva del convegno sulla lotta di liberazione, organizzato a Palermo nel 2016 dall’Istituto Gramsci - perché la Sicilia l’8 Settembre del ’43 si era trovata già liberata dal nazifascismo. Ma essa non mancò di dare il suo contributo al grande evento alla base del futuro assetto civile, politico e costituzionale italiano. Certamente, nei modi in cui ciò fu possibile». 

D’altra parte, come sottolinea lo storico Rosario Mangiameli, il partigianato siciliano costituisce «la più numerosa rappresentanza meridionale in tutte le regioni in cui si è combattuta la lotta di liberazione. In alcuni casi, soprattutto quello piemontese, al numero si aggiunge la qualità della partecipazione: parliamo di Pompeo Colajanni, il “comandante Barbato”, e di Vincenzo Modica, “Petralia”, dei fratelli Di Dio, attivi al confine con la Lombardia, protagonisti della liberazione dell’Ossola e personaggi simbolo del partigianato cattolico». 

Ferdinando e Gaetano a diciannove anni non hanno esitato di fronte alla dittatura e ne avevano pochi di più (ventitrè) altri martiri siciliani delle Fosse Ardeatine: Leonardo Butticè, nato a Siculiana (Agrigento), entrato dopo l’armistizio nei Gap delle Brigate Matteotti; Sebastiano Ialuna, di Mineo (Catania), che non risponde ai bandi della Rsi e poi, nelle campagne laziali, aiuta tre soldati alleati fuggiti dalla prigionia; stesso destino per Santo Morgano, nato a Militello Rosmarino (Messina) e anche lui arrestato per aver collaborato con quei tre militari alleati. La meglio gioventù dell’Isola, scomparsa nel baratro indicibile spalancato a colpi di mitra il 24 marzo del 1944.

 

 

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