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di Umberto Gentiloni
la Repubblica 27 MARZO 2023
La strage delle Fosse Ardeatine segna la memoria e l'identità di Roma. Nel secondo dopoguerra il Mausoleo diventa uno dei luoghi emblematici della Resistenza, richiamo simbolico, tappa di passaggio per protagonisti della complessa rinascita democratica. Le visite delle più alte cariche istituzionali alle cave scandiscono lo scorrere del tempo nelle stagioni dell'Italia repubblicana. Ma del massacro si scrive anche allora, a ridosso dagli eventi, quando le notizie cominciano a circolare nei mesi dell'occupazione nazista della città e nei primi passi di una ritrovata e preziosa libertà. Il ricordo che Eugenio Colorni dedica a Giuseppe Lopresti esce sulle colonne de l'Avanti! il 19 agosto 1944, cinque mesi dopo la strage, a due mesi e mezzo dall'ingresso delle truppe alleate nel perimetro cittadino. Uno scritto postumo, una sorta di triste presagio.
Colorni coautore del Manifesto di Ventotene era stato ucciso alla fine di maggio 1944, come si legge nella targa apposta sul luogo dell'agguato: "vittima dell'efferata violenza della Banda Koch durante l'occupazione nazifascista della città". Lopresti diventa un simbolo di una giovane vita spezzata: lo spessore culturale (gli studi in giurisprudenza e filosofia, compagno di scuola di Claudio Pavone al liceo Tasso), la scelta per la Resistenza senza mezze misure. A 25 anni combatte per la libertà di tutti nel passaggio più difficile, quello dell'uscita da una dimensione individuale per condividere obiettivi e forme della lotta partigiana.
Nel fascicolo personale (mausoleofosseardeatine.it dove sono pubblicati e consultabili i documenti sulle vittime) si legge che è stato arrestato a piazza Indipendenza il 13 marzo 1944, della sua morte si "è saputo dopo l'avanzata degli Alleati". Ricopre incarichi delicati, si qualifica come giovane espressione di una leva in ascesa che aveva attraversato il fascismo con la consapevolezza di doversi distaccare dalle forme e dai messaggi del regime. Mantiene i tratti della sua giovane età a partire dall'allegria. Torturato nel carcere di via Tasso prima di essere coinvolto nelle dinamiche della rappresaglia non aveva perso riferimenti e speranze. Una tranquillità riconosciuta e riconoscibile, un segno che si oppone alla logica della vendetta, a quella violenza indiscriminata e gratuità che va contro la natura delle persone, i valori che costruiscono relazioni e legami all'interno di una comunità. La denuncia contro il fascismo è un monito per chi è impegnato nei mesi cruciali della guerra civile: non disperdere energie e intelligenze, non lasciare che i sacrifici dei più giovani, di una nuova generazione possano andare perduti o cancellati.
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di Antonio Iovane
Il Venerdì 07 MARZO 2024AGGIORNATO 08 MARZO 2024
All’arresto in Argentina nel 1995 si arrivò grazie all’intervista di un reporter americano. Ma ora un libro-inchiesta ne svela i retroscena
Priebke sulla pista dell'aeroporto di Bariloche in Argentina. Getty Images
Il fantasma tornò sulla scena il 6 maggio del 1994. Quel giorno l’emittente americana Abc mandò in onda l’intervista a un uomo di cui si erano perse le tracce per cinquant’anni: il capitano delle SS che il 24 marzo 1944 fece l’appello dei 335 uomini costretti a entrare alle Fosse Ardeatine, a Roma, per essere uccisi. E poi sparò personalmente a due di loro. «A quei tempi un ordine era un ordine», disse Erich Priebke al reporter Sam Donaldson che lo aveva scovato a Bariloche, in Argentina. Gli spiegò che si era trattato di una rappresaglia per l’attentato partigiano di via Rasella.
In principio fu un libro
Ma se Priebke fu scoperto, quindi arrestato, estradato e infine processato in Italia, non lo dobbiamo solo al reporter di punta della tv americana, ma anche a un incontro: quello tra un libro e una producer argentina. Ed è una storia, questa, che comincia cinque anni prima. A scrivere il libro fu Esteban Buch, oggi professore di musica all’École des hautes études en sciences sociales a Parigi. È il settembre del 1989, e l’allora giovane studioso sta facendo alcune ricerche per ricostruire la vita di Toon Maes, un pittore collaborazionista fuggito in quel pezzo di Baviera trapiantato in Patagonia.
Gli dicono che proprio lì, a Bariloche, c’è qualcuno che può aiutarlo: il suo nome è “Erico Priebke”, ed è un vecchio nazista perfettamente integrato nella comunità tedesca d’Argentina. Buch lo intervista il 12 settembre 1989, in una biblioteca. Erico Priebke gli racconta che gestisce una salumeria, gli parla delle «personalità» tedesche a Bariloche, gli dice la sua sul nazismo.
Poi, prima che lo studioso si congedi, il vecchio rivela qualcos’altro ancora: gli dice che lui si trovava a Roma, durante l’occupazione tedesca, e cita l’attentato di via Rasella. Poi aggiunge: «C’era stato un atto di rappresaglia... del tutto legale, s’intende. Venivano fucilati dieci italiani per ogni soldato morto».
Fa intendere di aver preso parte a quella rappresaglia. Buch chiede se per questo ha subìto un processo. «No, io no, tutto è stato completamente legale».
Mezzo milione al Quarto Reich
Passa qualche anno, i neonazisti stanno alzando la testa un po’ ovunque, ci sono attentati razzisti e antisemiti, e il Centro Wiesenthal di Los Angeles, organizzazione nata a tutela degli ebrei nel mondo, decide di condurre un’indagine per scoprire se quei focolai sono il sintomo di qualcosa di più importante. Uno degli agenti scopre che sì, c’è una vera e propria rete, e la centrale finanziaria si trova esattamente a Bariloche.
Se ne occupa un vecchio arnese del Terzo Reich, il suo nome è Reinhard Kopps, ma si fa chiamare Juan Maler. C’è da inviare qualcuno: sarà un agente del Centro, Rick Eaton.
«Conoscevo molto bene il movimento estremista», ci racconta oggi Eaton che adesso si occupa di prevenzione del cyberterrorismo. «Lo avevo studiato a fondo. Per questo dissi ai rabbini del Centro che sarei dovuto andare io». L’agente, allora quarantenne, finge di essere un ricco editore intenzionato a foraggiare questo fantomatico Quarto Reich. Nasconde un registratore nella tasca della giacca sportiva e si imbarca. Per tre giorni, dal 2 al 4 aprile 1994, registra Kopps/Maler che farnetica sulla guerra e che racconta di come, da Roma, avesse favorito la fuga di molti nazisti.
Ovviamente reagisce entusiasta alla proposta di Eaton di un finanziamento da mezzo milione di dollari a favore dell’organizzazione.
Il massacro di Waco
Quando l’agente torna a Los Angeles, rivela che quel Kopps vuole fondare il Quarto Reich: occorre farlo sapere al mondo. Il Centro Wiesenthal organizza una conferenza stampa in grande stile all’Hotel Commodore di New York: ecco come gli eredi di Hitler si stiano rimettendo in piedi.
Nei primi minuti dell’incontro, tuttavia, in sala arriva una notizia bomba: l’Fbi è intervenuta nel ranch di Waco, in Texas, dove una setta è asserragliata da cinquanta giorni. C’è stato un incendio, ci sono settantasei morti tra cui donne e bambini. È la storia americana dell’anno, i giornalisti salutano e vanno via. La conferenza stampa è un flop.
Per il Centro Wiesenthal non può finire così, tutti devono sapere che il Quarto Reich è alle porte. Contattano la Abc che si mostra interessata, sente odore di scoop, e per cominciare ad approfondire decide di inviare a Bariloche una sua producer che vive a Buenos Aires: Dalila Herbst.
Ha 54 anni, ha lavorato come segretaria del direttore generale della Cbs e accompagna sempre Raffaella Carrà nelle sue trasferte argentine, sono diventate molto amiche.
La donna raggiunge Bariloche e cerca di contattare Kopps, ma in quei giorni il nazista non è reperibile. Così, per ingannare il tempo, cerca qualcosa da leggere che racconti la storia di Bariloche. Le consigliano un libro di Esteban Buch sul pittore Toon Maes. Solo che quel volume, nella principale libreria della città, non si trova, qualcuno ha comprato tutte le copie disponibili.
Setaccia altre librerie senza successo, finalmente ne trova una copia in un negozio vicino al lago Nahuel Huapi. E legge la storia di Kopps. Ma è un’altra storia a catturare la sua attenzione. A pagina 22 si parla di un capitano nazista, un certo Erico Priebke, che a Roma prese parte a una famosa rappresaglia.
Altro che Kopps, si dice la producer, occorre rintracciare Erico Priebke e accertarsi se sia davvero lui l’uomo della strage delle Fosse Ardeatine. Ma come fare? Dalila si arrovella. Poi, semplicemente, apre un elenco del telefono di Bariloche. E lo trova: alla P, sotto Prida Antonio e sopra Priebke Ingo c’è Priebke Erico.
Il fantasma tornò sulla scena il 6 maggio del 1994. Quel giorno l’emittente americana Abc mandò in onda l’intervista a un uomo di cui si erano perse le tracce per cinquant’anni: il capitano delle SS che il 24 marzo 1944 fece l’appello dei 335 uomini costretti a entrare alle Fosse Ardeatine, a Roma, per essere uccisi. E poi sparò personalmente a due di loro. «A quei tempi un ordine era un ordine», disse Erich Priebke al reporter Sam Donaldson che lo aveva scovato a Bariloche, in Argentina. Gli spiegò che si era trattato di una rappresaglia per l’attentato partigiano di via Rasella.
Ma non era che l’inizio
Dalila raggiunge il bar del ristorante, lo aspetta, è nervosa. Poi, finalmente, Priebke arriva. Indossa un maglione giallo sopra una camicia blu: la producer sorride faticosamente, è tesa, gli stringe la mano mentre lui è rilassato, ama la compagnia femminile.
Parlano di Bariloche, del turismo. Poi lei si inventa che suo nonno aveva partecipato alla Seconda guerra mondiale. Anche io, si anima Priebke, ero un ufficiale di stanza all’ambasciata americana a Roma.
«Lì ho capito che era il nostro uomo, ho capito che avevo di fronte a me Erich Priebke» ci racconta la donna. Priebke continua a parlare, lei è persa in una bolla di pensieri. «Sono tornata di corsa nella mia stanza e siccome soffro di diabete ho avuto bisogno di una dose extra di insulina».
Quello che accadrà un paio di giorni dopo, in Italia lo abbiamo visto sul Tg3 delle 22.30 del 6 maggio 1994: la celebre intervista-agguato ad Erich Priebke fatta dalla stella della Abc, Sam Donaldson, insieme a Dalila Herbst, che però non compare in video. Il boia delle Fosse Ardeatine viene arrestato, e poi estradato in Italia per essere processato. Non un percorso facile.
Di qui in poi la spy story diventa un legal drama. Sembrava la fine, era soltanto l’inizio.
Sul Venerdì dell’8 marzo 2024
*Antonio Iovane è l’autore del libro Il carnefice. Storia di Erich Priebke (Mondadori, 444 pagine, 20 euro)
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la Repubblica 29 LUGLIO 2013
L'ex ufficiale delle SS condannato per il massacro delle Fosse Ardeatine, non ha mai chiesto scusa La rappresaglia per l'attentato di via Rasella: Kappler compilò la lista delle vittime, Erich la batté a macchina
Mai una parola di pentimento per il proprio passato, mai un'espressione di comprensione per le vittime o le loro famiglie: per quasi cento anni anni Erich Priebke è rimasto fedele a se stesso, ed a quello che ha fatto. Cioè: aver partecipato al massacro delle Fosse Ardeatine, aver partecipato fin dai suoi inizi alla campagna di soppressione fisica degli oppositori politici del nazismo voluta da Adolf Hitler in Germania, averla proseguita in Italia fino al giorno stesso dell'arrivo degli americani a Roma il 4 giugno 1944.La storia dell'"uomo che spuntava la lista" inizia in un sobborgo di Berlino, negli anni immediatamente successivi alla disfatta nella Prima Guerra Mondiale. Famiglia modesta, studi in un istituto alberghiero, un primo soggiorno a Londra ed uno a Sanremo, come cameriere. Sembra che tutto inizi di lì, dall'amicizia con un maestro di sci che lo introduce al verbo del nazionalsocialismo. Lui, Priebke, sostiene invece di essere sempre stato un uomo come tanti, un semplice esecutore di ordini, uno che il poliziotto lo faceva perché doveva sbarcare il lunario, ed in fondo si trattava di un mestiere onorevole. Una sistemazione dignitosa: il ruolo perfetto in una società perfettamente piccolo borghese - quella tedesca dell'epoca - che faceva del decoro apparente l'unità di misura della rispettabilità. Il terreno di coltura dove attecchiva, mentre il giovane Erich entrava nelle forze di polizia di Berlino, la banalità del male. Il fatto è che lui entrava nella polizia di Berlino, e subito dopo confluiva nella Gestapo: la polizia segreta del regime. Di più: come rivelò all'epoca del processo l'AGI andando a cercare nei National Archives di Washington, Erich Priebke venne inquadrato nel Gestapa. Il Gestapa ("Geheim Staatspolizei Amt") era l'ufficio preposto all'individuazione ed alla schedatura degli oppositori del regime nazista. Si trattava soprattutto di comunisti, cattolici e socialdemocratici. A partire dal 1937 le SS, cui Priebke aveva nel frattempo aderito, iniziarono a rastrellarli. Finirono, a decine di migliaia, nel primo campo di sterminio del regime, quello di Sachsenhausen.Sempre nel 1937 il Giovane Erich dette una duplice svolta alla propria vita: sposò la ragazza di cui era innamorato e se ne andò a Roma, a fare da interprete ad Adolf Hitler in persona in occasione della visita ufficiale da Mussolini. A Roma sarebbe tornato un anno dopo, questa volta in pianta stabile, alle dipendenze di Villa Wolkonski, l'ambasciata tedesca presso il Regno d'Italia. Qui conobbe l'uomo al quale il destino lo avrebbe legato: Herbert Kappler, giovane ufficiale delle SS anche lui, anche se di un grado superiore. Cosa facessero in realtà i due a Roma non si sa bene. Si sa che ad un certo punto un autorevole esponente della nobiltà nera romana gli affittò per pochi soldi una palazzina, uso ufficio, nei pressi di San Giovanni. A Via Tasso, dopo l'Otto Settembre, i capi della Resistenza romana venivano portati, torturati, qualche volta costretti a confessare. Spesso morivano. In fondo lo stesso mestiere, per Priebke, dei tempi della Gestapo.Lui e Kappler stavano percorrendo a piedi la breve strada che unisce Villa Wolkonski a Via Tasso, il 23 marzo 1944, quando seppero dell'attentato a Via Rasella. Hitler ordinò prima la distruzione di Testaccio e San Lorenzo, poi si optò per la rappresaglia del 10 a 1: dieci fucilati per ogni tedesco ucciso. A fare la lista, nel corso di una notte, fu Kappler. Priebke batteva a macchina.
Si scelse prima tra i Todeskandidaten, quelli che tanto avrebbero dovuto morire comunque. Non bastavano: si decise di svuotare tutto il carcere, lasciando quelli le cui confessioni eventuali potevano servire al lavoro di intelligence politica Ma a morire dovevano essere in 330, ed anche così la lista non era completa. C'erano degli ebrei appena rastrellati, tra cui i sette Spizzichino. Sul camion, anche loro. Ma ancora restavano dei posti vuoti. Kappler e Priebke andarono dal prefetto repubblichino di Roma, Caruso, che consegnò una serie di criminali comuni, o solo gente in normale stato di fermo. Alla fine sui camion finirono in 335, contro i 330 inizialmente previsti. L'organizzazione di Via Tasso aveva funzionato anche troppo efficacemente Nemmeno 24 ore dopo l'attentato di Via Rasella quattro camion partirono da Via Tasso e Regina Coeli, presero l'Appia Antica e girarono a destra, sull'Ardeatina. Qui c'erano delle vecchie cave di tufo, utilizzate l'ultima volta alla fine dell'Ottocento. I prigionieri venivano fatti scendere, legati gli uni agli altri per le mani, a gruppi di cinque. Priebke spuntava i loro nomi dalla lista. Loro entravano nella grotta, si avvicinavano cinque SS, puntavano il fucile alla nuca e sparavano. Agli ufficiali toccò il primo turno di prigionieri: dovevano spronare la truppa a fare altrettanto.Una volta eliminato un gruppo di condannati, il successivo entrava, era costretto a salire sui corpi di quanti erano già stati uccisi, poi le cinque SS appoggiavano la canna del fucile alla nuca e sparavano. Gli ultimi entrarono che quasi non c'era più posto: la catasta dei morti arrivava fino al soffitto. Furono costretti a salire fino in cima. Uccisi anche loro, i nazisti se ne andarono facendo saltare l'ingresso della cava. Non mancarono di buttarci davanti un mucchio di immondizia, per coprire l'odore.(AGI) Nic (Segue)Il massacro venne scoperto, tempo dopo, da un gruppo di bambini che si era avventurato nella zona per giocare.
Al processo, cinquant'anni dopo i fatti, Priebke si difenderà dicendo di essersi limitato a spuntare i nomi dalla lista. Ma già Kappler, che nell'Italia del dopoguerra era stato arrestato, condannato, ricoverato al Celio e che aveva fatto in tempo a fuggire con l'aiuto della moglie per morire libero in Austria, aveva confermato che anche gli ufficiali avevano sparato.Le ricostruzioni provano poi che ci fu il caso di un caporale, Wetjen, che ad un certo punto si rifiutò di continuare. Kappler gli mise la mano sulla spalla, lo tranquillizzò, e lo indusse a continuare. Ma per quell'atto di insubordinazione il Caporale Wetjen non venne mai punito. Per ristabilire l'ordine Kappler ordinò un altro giro di esecuzioni anche per gli ufficiali. Tutti spararono una seconda volta. Il 3 giugno successivo si sparse la voce che gli Alleati erano alle porte di Roma. Per tutta la notte gli abitanti del quartiere San Giovanni videro alzarsi lunghe lingue di fuoco dal giardino retrostante la prigione di Via Tasso: erano Priebke a Kappler che bruciavano le carte dell'archivio. La mattina susseguente gli americani entrano dall'Appia e dalla Casilina, loro fuggono dalla Cassia, verso nord. Si dividono. Priebke continuerà nella sua opera prima a Verona e poi a Brescia.Dopo la guerra Priebke sparì di circolazione. Finì a Bolzano, dove si fece battezzare da cattolico, poi con un passaporto ottenuto probabilmente grazie alla complicità di Monsignor Hudal (il parroco della Chiesa di Santa Maria della Pace a Roma, che per questo genere di attività non venne mai ricevuto in Vaticano da Pio XII) si imbarcò a Genova su una nave diretta a Buenos Aires. Qui il cerchio sembra chiudersi, perchè Priebke torna al mestiere di gioventù: un giornalista italiano lo incrocia per caso, nel 1954, in un bistrò della capitale argentina. Serve ai tavoli. Pochi anni dopo si trasferisce con tutta la famiglia a San Carlos de Bariloche, in mezzo alle Ande argentine che proprio in quegli anni ispirano a Walt Disney la meravigliosa foresta di Bambi. Inizia una nuova vita, trova la prosperità, possiede una clinica privata. La mattina del 12 maggio 1994 una troupe americana lo ferma per la strada. "E' lei Erich Priebke?", chiede Sam Donaldson della Abc. "Sì", risponde lui. E' il momento dei conti con la storia. Il doppio processo in Italia si conclude con la condanna ad una lunga pena detentiva, da scontare agli arresti domiciliari. Lui viene ospitato sulle prime in un convento, poi il suo procuratore lo porta a casa sua, in un piccolo appartamento di un quartiere romano. E' la metà di un dicembre di qualche anno fa. I vicini di casa accolgono quest'uomo che non ha mai mostrato la minima emozione, il minimo pentimento, per non dire una parvenza di turbamento, con uno striscione sulla facciata del palazzo: "Buon Natale, assassino"
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di Umberto Gentiloni
la Repubblica 22 MARZO 2024
L’intervista al soldato del Bozen ricostruisce i fatti dell’attentato del 23 marzo 1944
«Ero in via Rasella, ricordo bene quella mattina, il boato dell’esplosione mi ha accompagnato in tante notti».
Soldati tedeschi in via Rasella subito dopo l'attentato del 23 marzo 1944
Albert Innerbichler (1914-2002) è uno dei sopravvissuti, fotografato e intervistato nel 1996 nel clima di polemiche scatenate dalle udienze del processo a Erich Priebke (Maurizio di Puolo, Damnatio Memoriae. Personaggi, luoghi e storie in 640 fotografie dall’archivio Metaimago, Gangemi, 2019). Tutto ha inizio nel cimitero militare tedesco di Pomezia durante una cerimonia in ricordo dei caduti del 23 marzo 1944, per tutti la stessa data incisa nella lapide. Il custode del cimitero mette in contatto il fotografo con il militare testimone frequentatore delle cerimonie annuali. Tra i due una telefonata rapida per fissare un incontro in una malga in Alto in Adige (San Giovanni, Valle Aurina) dove si svolge una lunga conversazione di fronte a un registratore. Due mini cassette il bottino della caccia al tesoro, rovinate dal tempo ma con audio in grado di permettere a un’amica docente di tedesco (Britta Roch) di tradurre il testo del colloquio. Le parole del soldato del Bozen a distanza di decenni riavvolgono il nastro degli eventi fino a quella mattina lontana quasi ottant’anni: «Proprio quel giorno e solo in quel giorno avevamo fatto delle esercitazioni. Erano rimaste munizioni, i fucili non erano del tutto scarichi».
E come si avvicinano a via Rasella? «Ognuno portava le sue pallottole. Ogni giorno le stesse strade, il comandante di plotone sul lato destro e i cinque soldati in riga con fucili carichi. Ma quel giorno il tenente ha dato ordine di scaricare i fucili, le canne dovevano essere vuote. Ma la cosa più strana è che i comandanti erano tutti avanti, in testa alla colonna, mai accaduto in precedenza».
A domanda precisa risponde senza dubbi: «Sì, sicuramente sapevano. Si percepiva che c’era qualcosa di strano nell’aria, qualcosa non andava per il verso giusto. Ero nel primo plotone nell’ala destra, all’esterno, nella prima fila direttamente dietro i sottufficiali».
Da qui il racconto diventa un fiume in piena di dettagli e ricordi che si sovrappongono rapidamente: «Cantavamo spesso e malvolentieri, canti sud tirolesi. Chi si rifiutava veniva punito in caserma con delle flessioni o camminando sulle ginocchia. Il clima tra noi era durissimo dovevamo essere feroci e implacabili. Quando la bomba è scoppiata stavamo cantando. Ricordo bene che mentre salivamo per la strada un bambino ci viene incontro scendendo sul lato sinistro. Allo scoppio della granata erano rimasti solo frammenti del suo corpo, anche a un mio amico che portava bombe nello zaino è capitata la stessa sorte. Riconosciuto solo grazie alla medaglietta che indossava».
Il bambino dilaniato dall’esplosione era Pietro Zuccheretti, gemello di Giovanni anche lui ritratto in foto nelle pagine del volume dedicate al 1944. Ma cosa accade in quei momenti concitati, cosa si ricorda? «Ho visto il carretto con la bomba sul lato destro e mi sono spostato per evitarlo verso sinistra, al momento dell’esplosione non ero ancora arrivato alla fine della strada. Ogni plotone era composto di sei file da cinque, il terzo e il quarto sono stati quelli maggiormente colpiti».
La scena gli è rimasta impressa: «Non sono caduto. In piedi non potevo sparare avevamo i fucili scarichi, dalle finestre ci colpivano, era tutto organizzato. Noi inerti e loro armati e organizzati. Chi poteva risponde al fuoco, eravamo ben addestrati per colpire i nostri nemici, senza pietà». Si fa avanti nel colloquio la moglie, con coraggio prende la parola: «Ho saputo subito anche io dell’attentato. Non avevo una radio, ma un vicino, il calzolaio, ne aveva una e mi ha riferito di aver sentito che c’era stato un attentato a Roma alla undicesima compagnia, che ne erano morti trenta. Ero scioccata non sapevo se mio marito stava bene». Nel caos la fuga di chi poteva: «Il capo plotone e l’ufficiale più vicino sono fuggiti subito correndo in avanti, senza voltare più lo sguardo indietro, a non rivedersi più». Una fuga che sembra una rotta. E il dopo ferisce anche l’orgoglio dei militari addestrati per controllare Roma e colpire i resistenti: «Dopo quel giorno di marzo il mio battaglione è stato trasferito alla spicciolata individualmente con i mezzi più diversi. Io sono finito in carcere a Bolzano perché mi ero allontanato per salutare mia moglie. Sono rimasto dentro per dieci settimane, siamo stati interrogati in 35, volevano indagare su chi era rimasto fedele al Führer e chi no, chi era considerato traditore. Siamo stati puniti e trasferiti a Danzica e poi a Minsk. Sono tornato in Italia nell’autunno del 1946, in Russia è stata durissima non sapevamo se saremo mai tornati da moglie e figli». In conclusione lo spazio alla memoria successiva: «Non ne ho mai parlato né in paese né altrove. Rispondo ai miei figli quando mi chiedono qualcosa, il minimo. So poco anche del rientro di Priebke. L’uccisione delle vittime è stato uno shock, ne ho solo sentito parlare; ma per loro erano solo numeri, anche gli ostaggi. Anche per noi soldati solo numeri e ordini di una guerra, dovevamo obbedire e basta».
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di Ezio Mauro
la Repubblica 13 FEBBRAIO 2023
Parla l'ex prefetto di Roma che nascose la salma del capitano delle SS: "Penso si debba partire dai valori che sono alla base della democrazia e che ci impongono di avere rispetto per il corpo del vinto, anche se colpevole"
Erich Priebke (1913-2013), capitano delle SS durante la Seconda guerra mondiale,
in servizio presso l’ambasciata tedesca di Roma
Giuseppe Pecoraro, 72 anni. Lei oggi coordina la lotta all'antisemitismo dopo aver passato tutta la sua vita professionale nelle prefetture d'Italia, a Rovigo, Prato, Benevento. È stato vicecapo della polizia e soprattutto, dal 2008 al 2015, è stato Prefetto di Roma. Per lei questa storia comincia l'11 ottobre del 2013, quando il telefono squilla nel suo ufficio. Chi la sta chiamando e perché?
"È il professor Ignazio Marino, sindaco di Roma, che quasi urlando, mi dice: "è morto Priebke, e io non ritengo di provvedere alla sua sepoltura. I motivi sono di ordine pubblico: tra i neofascisti che lo vogliono celebrare, la sinistra che lo vuole contestare, io non me la sento di ospitare rito funebre e funerale, e avverto il governo"".
Ma il sindaco ha questo potere di vietare un funerale?
"Il sindaco non può impedire che si svolga un funerale, ma può far sì che avvenga in forma privata".
Quindi in quel momento irrompe tra i suoi doveri un compito non previsto: gestire funerale e sepoltura di Priebke, l'ufficiale delle SS che era stato vicecomandante della Polizia di Roma occupata, che dava la caccia agli antifascisti, che li torturava nel carcere di via Tasso e che alle Fosse Ardeatine teneva la contabilità dei giustiziati, 335, 5 in più di quanto era stato deciso per rappresaglia dopo l'attentato di via Rasella. Si rende immediatamente conto della delicatezza del caso?
"Non c'è dubbio. Il nome di Priebke è tristemente famoso e a Roma tutti ricordano le Fosse Ardeatine, tutti conoscono il Male causato da quest'uomo, che per di più non si è mai pentito. Sapevo cosa stava per succedere ed ero molto preoccupato".
La figura di Priebke aveva già creato problemi di ordine pubblico?
"Sì, periodicamente c'erano state delle azioni di protesta nei suoi confronti, come pure iniziative nostalgiche, ad esempio la festa per i suoi cento anni".
Un caso di rilevanza mondiale. Lei cosa decide di fare come prima mossa?
"Sapevo che Priebke si trovava nella Cappella del Gemelli, dov'era morto. Per cui ho pensato che lì si potesse svolgere il rito funebre, e ho chiamato il Cardinal Vallini, Vicario di Roma: subito si è detto d'accordo, ma quando si è reso conto che molte persone di destra e di sinistra si stavano mobilitando per andare al Gemelli, mi ha chiesto di trovare un'altra soluzione. Dovevo ricominciare".
Decide subito di contattare i figli di Priebke?
"Sì, vivono all'estero, uno in Patagonia e l'altro negli Stati Uniti. La prima idea che mi viene è quella della cremazione".
Perché?
"Sono sincero: era la cosa più semplice, perché con la cremazione veniva meno il corpo, elemento simbolico e materiale per i nostalgici, al centro di possibili conflitti politici. Ma i figli non mi hanno concesso l'autorizzazione".
Lei si è trovato davanti una domanda millenaria: che fare col corpo del nemico? C'è il problema che quel corpo da vivo non ha mai voluto separarsi dalla colpa, e quindi ne è ancora in qualche misura investito. Bisogna evitare che diventi un sacrario nazista, o un luogo d'oltraggio. Cosa si può fare?
"Io penso che si debba partire dai valori che sono alla base della nostra democrazia, e che ci impongono di avere rispetto per il corpo del vinto, anche se colpevole".
Sta dicendo che la Repubblica processa perché vuole giustizia, rispetta la condanna ma non cerca vendetta?
"Non pratica vendette, la democrazia, e questo è un insegnamento per tutti".
Ma c'è una contraddizione: tocca a lei provvedere alla sepoltura di Priebke, come prefetto di Roma, ma Roma non vuole questi funerali perché è la città delle Fosse Ardeatine. Come si scioglie questo nodo?
"Innanzitutto tenendolo ben presente. Non era possibile avere uno dei colpevoli dell'eccidio delle Fosse Ardeatine vicino a chi era morto in quella strage. La popolazione di Roma non avrebbe mai accettato".
Erich Priebke durante il processo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine
Il sindaco dice di no, il Vicariato di Roma si tira indietro, al Gemelli non è possibile fare questi funerali, i figli negano il permesso per la cremazione. Dunque?
"Si pone il problema di cosa fare della salma. Una soluzione sta diventando urgente. Ed ecco che mi arriva un telegramma dalla Comunità lefebvriana di Albano Laziale, che si dichiara disponibile a officiare i funerali di Priebke".
Ma la Comunità lefebvriana di Albano era finita nell'occhio del ciclone nel 2009, quando Monsignor Richard Williamson disse che nei campi nazisti non c'erano le camere a gas, e poi si dovette scusare con Papa Benedetto XVI. In più proprio in quei giorni, la commissione giustizia del Senato istituisce il reato di negazionismo: forse i lefebvriani non erano la soluzione più giusta, non crede?
"Ma lei non considera che io dovevo togliere la salma dall'ospedale Gemelli, perché la gente stava affluendo, col rischio di scontri. Bisognava andare ad Albano Laziale dove c'era questa Cappella disponibile. E dove, altrimenti?".
Ma quando il furgone con la salma di Priebke arriva davanti all'Istituto San Pio X succede il finimondo. Se lei tornasse indietro, considererebbe ancora quella dei lefebvriani la soluzione migliore?
"Non so se era la soluzione migliore, certo in quel momento era l'unica".
Il sindaco però, nella sua ordinanza, invoca problemi di ordine pubblico. Come mai lei decide di andare comunque avanti?
"Perché il sindaco non poteva rivendicare motivi di ordine pubblico, in quanto si trattava di un rito funebre in una cappella privata, in un suolo privato. Per cui non poteva interferire. Anzi, dovevamo sbrigarci perché gruppi di estremisti stavano arrivando da Roma".
La situazione è questa: alle 19.30 la funzione, che doveva cominciare due ore prima, non è ancora iniziata. Alle 19.50 è definitivamente sospesa. Cosa sta succedendo?
"Come temevo cominciano gli scontri. Per evitare il peggio annullo il funerale in attesa di trovare il momento opportuno per portare via la salma di Priebke".
Ma quel corpo adesso è dentro l'Istituto San Pio X assediato dai fascisti. Come pensa di impadronirsi della bara?
"Faccio arrivare ad Albano Laziale un furgoncino anonimo con agenti di polizia in borghese. Quando i neofascisti vanno a mangiare gli agenti penetrano all'interno, trasportano la bara fuori attraverso la finestra, la caricano sul camioncino e partono".
Siamo al rocambolesco, la bara trafugata dalla finestra. Quel furgoncino col corpo di Priebke in fuga è un po' l'immagine del fallimento di questa prima fase e mette lei al centro delle polemiche. C'è chi chiede le sue dimissioni, molti l'accusano di fare scelte di parte, ideologiche. Lei pensa di gettare la spugna, di rinunciare?
"Non ci penso proprio, in quel momento cerco solo di portare la bara altrove, evitando incidenti. L'unica preoccupazione non riguarda gli attacchi a me, ma il rischio che nel trasferimento il furgone con la salma possa essere intercettato".
Dove lo sta dirigendo?
"Verso Pratica di Mare, dove c'è una caserma dell'aeronautica, e quindi nel caso posso chiedere l'aiuto dei militari presenti".
Intanto i suoi piani saltano ad uno ad uno. Che ipotesi rimangono sul suo tavolo?
"Guardi, a un certo punto ho ipotizzato un trasferimento della salma in Argentina, dove Priebke aveva vissuto per un lungo periodo, ma Buenos Aires non ha mai risposto ai nostri sondaggi. Poi ho pensato alla Germania, ma i tedeschi non ne volevano proprio sapere, chiedevano soltanto che noi arrivassimo infine alla sepoltura del corpo. Rifiuto netto anche dai cimiteri militari tedeschi, perché Priebke non era morto in guerra: e dai sindaci di quattro città, che contatto e mi dicono di no".
Nessuno vuole il corpo del nemico. Lei però è in una tenaglia. Per il rispetto della storia deve evitare un'altra Predappio, per il rispetto della democrazia deve dare sepoltura al corpo di Priebke. La bara è ferma in un hangar con la finestra aperta a Pratica di Mare. Quanto può reggere una situazione del genere?
"Infatti, non poteva reggere. Sentivo anche la pressione dell'aeronautica, affinché io portassi via la salma, i soldati mormoravano, tant'è che per evitare complicazioni ho disposto un'altra zincatura della bara. Ma tutto questo non basta".
Cioè lei capisce che deve compiere una scelta, deve prendere una decisione?
"Certamente. Dovevo uscire da questa impasse, toccava a me. Prima di tutto perché me ne ero assunta la responsabilità di fronte al governo. Poi, e soprattutto, perché la sepoltura di Priebke era diventata una questione internazionale".
Si è reso conto allora che il nome di Priebke rendeva il caso universale?
"Certo, il mondo ci guardava per la difficoltà di decidere ma soprattutto per ciò che Priebke era stato, con le sue azioni e le sue parole".
Siamo in una situazione in cui l'urgenza incalza fortemente, ma il muro dei no impedisce una soluzione. Come si può forzare questo sbarramento?
"Ragionando su Priebke, sulla sua vita, sui crimini, sul giudizio, la condanna. A un certo punto mi trovai a pensare: ma era un detenuto... è morto da detenuto...".
Lei trova un bandolo nella sentenza del 1998 che condanna Priebke e fa sì che al momento della morte Priebke fosse tecnicamente un carcerato: è così?
"Esattamente. Era la svolta. Mi sono detto, ma se muore un detenuto dove viene sepolto? Se nessuno richiede la salma, viene sepolto nel cimitero del carcere".
Quindi?
"Quindi io potevo utilizzare la condizione giudiziaria di Priebke - detenuto - per arrivare alla sepoltura nel cimitero di un carcere. Così c'è l'inumazione della bara, ma il muro della prigione impedisce ogni pellegrinaggio e ogni oltraggio".
Ma anche in questi casi bisogna chiedere l'autorizzazione ai sindaci?
"Certamente. Quindi dovevo trovare un carcere il cui cimitero non era amministrato da un sindaco. Con fatica lo abbiamo individuato, ho chiamato il direttore del carcere e l'ho informato di dover svolgere un'azione coperta dal segreto di Stato".
Senza dire chi era il detenuto che veniva sepolto?
"Certo, senza dire nulla".
E lo ha vincolato al segreto?
"Per forza: anzi, mi ero fatto fare dal Ministro dell'Interno una delega per cui tutta l'operazione era coperta da riservatezza. Tutti dovevano mantenere il segreto".
Non crede il segreto assoluto, il "segretissimo", sia la conferma di quanto è ancora difficile un rendiconto pubblico sulla tragedia del secolo scorso?
"Infatti. Era necessario mettere il "segretissimo" proprio per evitare speculazioni e manifestazioni nostalgiche".
Sono le 11 di sera di un venerdì, 14 giorni dopo la morte di Priebke. È l'ora della scelta: il cimitero di un carcere. In questo modo Priebke avrà la sua tomba come voleva, ma l'avrà nella terra del paese che è stato profanato con l'eccidio, e sarà una terra prigioniera. È questa la soluzione?
"Sì, una soluzione capace di soddisfare i valori della democrazia e anche la famiglia Priebke. Informo i figli che verrà sepolto in forma riservata e in un luogo segreto. Tanto è vero che il direttore del carcere e gli uomini che portano la bara nel cimitero non sanno di chi è la salma che viene sepolta".
È verso quel cimitero che si dirige la station wagon partita da Pratica di Mare: la bara coperta da un telo passa davanti all'ultima bandiera italiana, entra nel carcere nella sospensione della domenica, quando non ci sono visite né lavori, mentre i detenuti sono tutti in cella. Chi si occupa della sepoltura?
"Due carabinieri partiti da Roma con una zappa, un piccone e una croce che verrà messa sulla tomba, con un numero. Quel numero è riportato su un foglio che io ho custodito nella cassaforte in prefettura. Serve a identificare la tomba, se un giorno i figli vorranno visitarla".
Sono venuti?
"Non mi risulta".
Lei è andato a visitare la tomba di Priebke?
"Sono andato per controllare l'esito finale di questa vicenda incredibile, e per avere la prova che lo Stato democratico in silenzio ha fatto il suo dovere. Oggi finalmente la vicenda Priebke è chiusa".
Lei sta dicendo che la democrazia, compiuto il suo dovere, può riprendersi i suoi diritti, a partire dalla distinzione tra il bene e il male?
"Proprio distinguendo tra il bene e il male si afferma la forza della democrazia e il dovere della giustizia".
Prefetto, da questa vicenda si può trarre la lezione che non esistono situazioni impossibili, perché c'è sempre la possibilità della scelta, il dovere della scelta?
"Le lezioni sono due: l'impossibile può essere sfidato, l'importante è assumersi la responsabilità di una scelta, che c'è sempre. Ma i fantasmi del Novecento sono ancora pericolosi, soprattutto per i giovani. Per questo non bisogna avere nessuna indulgenza: guai a essere indifferenti, la storia insegna".
Pubblichiamo una sintesi dell’intervista di Ezio Mauro a Giuseppe Pecoraro sulla sepoltura di Erich Priebke per il programma “La Scelta”, prodotto da Rai Approfondimento e Stand By Me. L’intervista integrale il 13 febbraio su Raitre alle 23.15