Archivio News del Quadraro
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Roma Quadraro-Città 2016-2019 è una mostra di fotografie e video, inserita nell'ambito delle celebrazioni della Resistenza romana. La mostra, visitabile dal 12 al 18 aprile, si tiene nella galleria Embrice, in via delle Sette Chiese 78, ed è patrocinata dall'VIII municipio. Il Quadraro ha ben due medaglie al valor civile, una data da Ciampi e la seconda da Mattarella, una al quartiere e l'altra a Don Gioacchino Rey, parroco della parrocchia della Madonna del Buonconsiglio che si oppose al rastrellamento del Quadraro, il 17 aprile del 1944.Autore delle immagini il fotografo Giuseppe Francavilla, fotografo palermitano, contributi video di Lucilla Salerno. La mostra è curata da Carlo Severati, architetto, e Ginevra Salerno, docente di Architettura presso l'università Roma Tre.
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dalla nostra inviata Brunella Giovara
La collaborazione dei nostri militari con le SS è ormai accertata. Da qui Primo Levi partì per Auschwitz
La Repubblica 26 GENNAIO 2023
Campo di concentramento di Fossoli
FOSSOLI - Di questi tempi, conviene farsi un giro al campo di concentramento di Fossoli. Un posto ora quieto, nelle nebbie della bassa modenese. È stato un luogo di dolore disperato, addii, e non ritorni. Migliaia di deportati per lo più italiani, 6mila tra ebrei e politici, sono passati da qui per andare a morire nei lager tedeschi e polacchi. Uno dei sopravvissuti, che era Primo Levi, ricordò che il giorno della partenza per Auschwitz, alla stazione di Carpi disse a un milite italiano (un emiliano, uno forse persino spaventato da quello che vedeva e faceva) "faccia il ladro, è molto più onesto". Intorno, botte da orbi a chi tardava a salire sul treno. "Si ricordi che lei ne è complice", poi anche lui entrò nel vagone. Abbiamo dimenticato questi fatti. Molti ricordano il regime di Mussolini come giammai ostile verso gli ebrei, minimizzando le leggi razziali del 1938, omettendo i provvedimenti della Repubblica sociale che diedero il via alla caccia all'ebreo.
"Gli ebrei in questa guerra sono nemici e vanno trattati come tali", lo stabilì la Carta di Verona. E poi Buffarini Guidi ne ordinò la cattura, stabilendo che quelli presenti sul suolo italiano andavano internati in un luogo definito, in attesa di finire nel campo speciale di Fossoli. Marzia Luppi, direttrice della Fondazione Fossoli, ha appena inaugurato una mostra sui ritratti fatti nel campo da Armando Maltagliati e Lodovico Belgiojoso, e ricevuto alcune lettere preziose, donate dai discendenti di Carlo Prina. Il partigiano e reclutatore di partigiani Prina venne ucciso nella strage del poligono di Cibeno, non lontano da qui: 67 persone mitragliate dalle Ss, ed erano tutti prigionieri di Fossoli, nel punto esatto "dove comincia il tema della responsabilità italiana nella cattura e deportazione degli ebrei, e non solo", spiega la dottoressa Luppi.
Il 12 luglio 2021 il presidente della Commissione europea David Sassoli venne per l'anniversario, assieme a Ursula von der Leyen, una tedesca. La presidente del Parlamento europeo disse "è stato un soldato tedesco a ordinare di uccidere i vostri genitori e i vostri nonni. È una colpa profonda nella storia del mio Paese". Certo, ma Fossoli era un campo di concentramento per ebrei della Rsi, e la sola autorità a cui rispondeva era la questura di Modena. Italiani, brava gente, volenterosi esecutori di ordini interni, prima che di quelli nazisti. Non zona grigia, ma nera proprio, e non solo per il colore delle divise. Fabio Levi, storico e presidente del Centro Internazionale Primo Levi: "Fossoli è la prova provata che i tedeschi e gli italiani agivano insieme. Ed è un nome che tutti dovrebbero imparare a memoria, visto che molti lo pronunciano ancora nel modo sbagliato, cioè Fossòli". Lì ci fu "la collaborazione concreta, nei fatti, nell'avvio della deportazione, e non ci possono essere equivoci sui fascisti di allora e quelli che sono venuti dopo: i neofascisti sono gli eredi dei repubblichini, quei fascisti incattiviti che se la presero con gli ebrei".
In quella zona nera, gli italiani facevano il loro lavoro: "Cercare gli ebrei. Le forze di polizia della Rsi conoscevano bene il loro territorio, e soprattutto avevano un'ottima documentazione per trovarli", spiega Luppi. Erano gli elenchi del censimento avviato nel 1938 dopo il Manifesto della razza, e concluso nel 1939, con la schedatura di oltre 47mila persone (la fonte è il Governo). La caccia fu semplice e "il primo convoglio partì il 26 gennaio del 1944, con 83 prigionieri, caricati dalla polizia italiana sui camion e portati alla stazione di Carpi, dove li aspettava il treno per Bergen Belsen. Qui i nazisti li presero in consegna. Ma quando si parla di questi crimini, si tende sempre ad addossare le colpe ai tedeschi. Le responsabilità italiane passano ancora sotto silenzio". E anche la seconda spedizione (19 febbraio), fu permessa e attuata con la collaborazione della questura di Modena. E così la terza: 22 febbraio, il treno su cui salì Primo Levi, con destinazione Auschwitz. Il 15 marzo 1944 il comando germanico di Verona prende possesso di un'area di Fossoli, il cosiddetto campo nuovo. Luppi: "L'altro resta gestito dalla questura. E si spartiscono le persone. Ma gli italiani mantengono il controllo su tutta l'area del campo", e purtroppo.
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di Marco Belpoliti, di Marco Belpoliti
la Repubblica 20 APRILE 2022
Da aguzzini ad attori. Non è fiction ma realtà: due luogotenenti di Kappler lavorarono sui set di Risi, De Sica, Visconti
A sinistra Borante Domizlaff, vice di Kappler, in una scena della Ciociara
La sera del 21 dicembre 1961 al cinema Metropolitan di Roma c'è la prima del film di Dino Risi Una vita difficile. Nelle prime scene il protagonista, Alberto Sordi, veste i panni di un giornalista partigiano, Silvio Magnozzi. Dopo un rastrellamento, cui è scampato, finisce in un hotel pieno di tedeschi. Qui viene affrontato mitra alla mano da un soldato tedesco. L'azione dura poco più di un minuto ed è la premessa per raccontare la storia di Magnozzi attraverso quindici anni di storia italiana. Elena, la figlia della padrona dell'hotel, uccide con un ferro da stiro il tedesco e salva Silvio dalla fucilazione.
Il soldato ammazzato - nella vita reale, non nella finzione - non è altro che Borante Domizlaff, un ex maggiore delle Ss, il vice del tenente colonnello Herbert Kappler, il responsabile della strage di 335 italiani nelle cave di via Ardeatina il 24 marzo 1944. Cosa ci fa un nazista vero nei panni di un nazista in costume in un film italiano dell'epoca? Partendo dalla presenza di Domizlaff in questo, come in altri film, Mario Tedeschini Lalli ricostruisce in una sorta di inchiesta-giallo, l'appassionante Nazisti a Cinecittà (Nutrimenti), la storia delle Ss nei film italiani del Dopoguerra.
Tre sono i principali interpreti di questa vicenda dai mille fili e intrecci, che si spande a macchia d'olio: Domizlaff, il suo collega Karl Hass, maggiore delle Ss, anch'egli presente alle Fosse Ardeatine, organizzatore di una rete di spie tedesche. E poi un terzo imperscrutabile personaggio: il barone Otto von Wächter. Quest'ultimo è stato governatore di Cracovia e ha creato la divisione Waffen Ss ucraina.
Accusato dell'uccisione di centinaia di migliaia di ebrei, è uno dei criminali di guerra più ricercati. Morirà in modo oscuro a Roma nel Dopoguerra, come ha raccontato, nel suo libro La via di fuga. Sulle tracce di un criminale nazista (Guanda), Philippe Sands.Sullo sfondo altri personaggi come Erich Priebke, ricercato per la medesima strage, rifugiato in Argentina, e il conte Anton Bossi Fedrigotti, altoatesino di fede nazista. Intorno a loro si muovono innumerevoli personaggi più o meno minori, come il vescovo tedesco Alois Hudal, protettore di nazisti nella capitale e loro punto d'appoggio verso il Sudamerica.
La storia comincia con un mistero: l'autore di Una vita difficile è Rodolfo Sonego, uno dei più importanti sceneggiatori italiani, che era stato durante la guerra un comandante partigiano. Come poteva non sapere che a interpretare il nazista c'era il braccio destro di Kappler? La risposta non c'è. Domizlaff non figura solo in quel film. Ha avuto un ruolo anche in altri, come La ciociara di Vittorio De Sica, uscito l'anno precedente, e La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, dove recita nei panni di una Sa nazista nell'episodio legato alla notte dei lunghi coltelli. Lo troviamo nel 1960 persino in una scena di Tutti a casa di Luigi Comencini, dove è ancora una volta un milite tedesco in divisa che scopre e cerca di catturare una ebrea interpretata da Carla Gravina.
Scavando come un minatore Tedeschini Lalli ha sondato il web, ha consultato elenchi telefonici della Germania e dell'Italia, scartabellato dossier desecretati della Cia, passato in rassegna foto di scena, dato la caccia a indirizzi e viaggiato da un capo all'altro dell'Europa alla ricerca delle storie di questi personaggi, parlando, quando gli è stato possibile, con i loro eredi. Voleva capire quale fosse la rete che legava i due ex-maggiori della Ss al cinema. Ha scovato così una pellicola di Aldo Scavarda, suo unico film come regista, La linea del fiume, del 1975, opera per ragazzi, dove Karl Hass recita la parte di un generale tedesco. Anche Scavarda, come Sonego, era un ex partigiano, torturato dai nazisti.
Le storie che l'autore ci racconta sono insieme inquietanti e banali. Hass non se la passa certo bene; fugge innumerevole volte per evitare la chiamata in correo della strage. Viene protetto dai servizi segreti americani ed è sospettato di fare il doppio e triplo gioco, ma molti anni dopo sarà condannato all'ergastolo. Domizlaff, che nel 1948 è a fianco di Kappler nel processo, viene assolto perché nonostante abbia sparato alle Ardeatine, se la cava con il fatto d'aver obbedito agli ordini. Nel libro c'è anche il sottobosco fascista dei reduci di Salò, che i servizi americani usano in funzione anticomunista durante la Guerra fredda.
Le coincidenze nella vita di questi personaggi sono tantissime e spesso sconcertanti. Troviamo ad esempio il nazista scrittore conte Anton Bossi Fedrigotti partecipare alla produzione di innumerevoli film come Le quattro giornate di Napoli e Il processo di Verona.
L'autore cerca di fare i conti con un labirinto di specchi, come lo definisce, che contiene il rovesciamento tra realtà e finzione; e cerca di dipanare il gomitolo delle sue storie: inseguendo un personaggio, Waechter, trova Hass, e indagando su Hass scopre Bossi Fedrigotti, e la sua presenza in un film dove recita Domizlaff. La loro vita è quella di clandestini, o di protetti dai servizi segreti, inseguiti da mandati di cattura internazionali, oppure liberi di viaggiare come Priebke, che viene in Italia con un passaporto col proprio nome per incontrare i due ex maggiori delle Ss.
Quale è la morale che si può trarre da questo libro, che ci presenta la vita quotidiana, le parentele, i legami, le connessioni tra mondi vicini e insieme lontani? Tedeschini Lalli, dopo aver cercato di trovare un perché all'intreccio delle biografie degli ufficiali tedeschi a contatto col cinema italiano, conclude che le loro storie raccontano molto ma non spiegano quasi niente.
La verità è che c'è sempre qualcosa di casuale e di imponderabile in ogni vita umana, anche in quella di assassini seriali. Non esiste un complotto dei servizi segreti o degli ex nazisti; è il mondo ad apparire un caos in cui si cerca di trovare una coerenza tra cause ed eventi. E quando qualcuno crede di avervi trovato un qualche ordine, questo subito appare instabile e incompleto.
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di Marcello Pezzetti
Lo scrittore, fermato il 13 dicembre 1943, è deportato nel campo italiano da dove, il 22 febbraio, è trasferito ad Auschwitz. Ecco la ricostruzione
La Repubblica 20 FEBBRAIO 2024
Un particolare della carta di identità di Primo Levi prima della deportazione ad Auschwitz
«L’alba ci colse come un tradimento… Alla stazione di Carpi... ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio… Vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiú, verso il fondo».
Così descrive Primo Levi, in Se questo è un uomo, la partenza da Fossoli per Auschwitz.
Il chimico Primo era stato arrestato il 13 dicembre 1943 con il medico Luciana Nissim e il chimico Vanda Maestro in un alberghetto di Amay, sul Colle de Joux, dove si trovavano, con Guido Bachi e Aldo Piacenza, per organizzare la loro partecipazione alla lotta contro il fascismo. Luciana, Vanda e Primo, ebrei, si conoscevano da diversi anni, perché facevano parte di uno straordinario gruppo di giovani intellettuali antifascisti che si radunava regolarmente presso la biblioteca della scuola ebraica di Torino.
«Quando ci hanno arrestati… noi abbiamo detto che non eravamo dei partigiani o dei banditi, ma eravamo degli ebrei nascosti», ha testimoniato Luciana, come del resto avrebbe confermato Primo. Solo nel carcere di Aosta iniziarono a comprendere la devastante centralità della politica antiebraica nazi-fascista, a prendere coscienza del fatto che «… forse per gli ebrei... non era aria. Prima no, prima non avevamo grande idea di quello... non sapevamo... non ce lo chiedevamo, devo dire».
Dopo circa un mese furono inviati a Fossoli, dove, nel luogo in cui si trovava un campo di concentramento per prigionieri di guerra, il 5 dicembre era stato istituito dalle autorità italiane il campo di concentramento nazionale per ebrei, in base all’Ordinanza di polizia del Ministero degli Interni del 30 novembre.
Le amiche di Primo Levi: Luciana Nissim e Vanda Maestro
A partire da questa data, iniziarono ad essere inviati in questo luogo, autonomamente gestito e sorvegliato dagli organi di Polizia italiani, gruppi sempre più numerosi di ebrei arrestati in tutto il territorio della RSI. Una illuminante descrizione del campo in questa prima “fase italiana” si deve proprio a Luciana, in una rarissima testimonianza rilasciata sui resti delle baracche del campo agli inizi degli anni ’90: «Vedo un posto verde, con della gente. Niente di drammatico.
Un campo piccolo, con il sole, con della gente che si muoveva, faceva le sue cose. Probabilmente si vedeva al di fuori delle persone, libere. Questo sì, colpiva questa gente che era fuori dai fili spinati. Ma non c’era quest’aria di terribile disgrazia, anche se oggi sembra un po’ grottesco». Questo ingannevole clima di tranquillità, tale da rendere la situazione quasi “normale”, venne descritto da diversi testimoni arrivati anche nei mesi successivi, che qui raggiunsero o furono raggiunti da altri membri del proprio nucleo familiare di cui non avevano più notizie.
Uno di loro, Nedo Fiano, arrivò a sostenere: «Non voglio esaltare il campo di Fossoli, per l’amor del cielo… ma l’arrivo qui dal carcere (le Murate di Firenze) ebbe un vissuto estremamente favorevole. Qui c’era un po’ di verde, degli alberi…», e un altro, Alberto Sed, disse che «Sembrava una vita normale».
Ulteriori motivi di illusione furono la mancanza di personale nazista; la costante e rassicurante presenza del parroco di Fossoli, don Francesco Venturelli, munito del permesso di entrare per occuparsi dei convertiti al cattolicesimo, ma che prestò aiuto anche a molti ebrei “puri”; il contatto, sempre più sistematico, con alcuni abitanti del luogo che svolsero “funzioni speciali” (fornaio e barbieri); l’organizzazione interna della vita affidata agli stessi prigionieri, che gestirono autonomamente le varie mansioni (capo campo, vari capo baracca, responsabili dell’alimentazione e della cucina, delle attività culturali e addirittura “ludiche”); l’assenza, infine, di maltrattamenti da parte del personale di sorveglianza (carabinieri, uomini della PS e della Milizia), in particolare del direttore del settore ebraico del campo, Domenico Avitabile, vicecommissario di Pubblica sicurezza.
Questa fu la grande illusione che vissero i tre giovani intellettuali giunti dal carcere di Aosta, che fecero vita comune fino alla deportazione e ai quali si aggiunse Franco Sacerdoti, ebreo napoletano trasferitosi a Torino e arrestato in Val di Lenzo. «Stavamo sempre insieme noi quattro — raccontò Luciana –, facevamo le cose che dovevamo fare, accoglievamo la gente, stavamo a chiacchierare insieme. Non ricordo particolari melanconie o preoccupazioni… eravamo forti, giovani… Aiutavamo la gente per quanto possibile, volevamo bene agli amici. Non c’erano sacrifici particolari, si stava insieme con gli amici o le famiglie. Non lo ricordo come un periodo duro, spiacevole… Certamente la gestione del campo la facevamo noi. Io e altri capo baracca suddividevamo i compiti, ma non era un lavoro coatto. Il capo del campo, Avitabile, veniva a chiacchierare amabilmente con noi».
Nemmeno l’arrivo di sempre più numerosi blocchi familiari ebraici e la presenza di numerosi anziani, tra cui un folto gruppo proveniente dalla casa di riposo israelitica di Venezia, suscitò in quei giovani forti dubbi sulla sorte loro riservata. «Io non avevo il senso dell’ebraismo, della persecuzione; me l’ero aggiustata così, che io era una combattente, subiva l’infelicità, i dolori, i rischi di chi aveva deciso, in quel momento, di combattere… Per me non era il preludio della morte. Era un momento di passaggio fra una vita e un’altra. Insomma, la vita continuava».
La convinzione di quasi tutti era che la guerra sarebbe presto finita e che, quindi, in un modo o nell’altro tutti sarebbero ritornati a casa. Un fatto ancor più convincente avvenne prima della fine di gennaio: giunse in campo la notizia che i giovani medici appena laureati potessero accedere all’esame di Stato. Luciana, con l’aiuto di Avitabile, fece domanda per essere ammessa. E il 10 febbraio la Prefettura di Torino concesse anche all’“ebrea italiana internata” Luciana Nissim il permesso di sostenerlo. Luciana, però, non ricevette mai tale comunicazione, ed alcuni giorni dopo venne deportata.
A gennaio, infatti, le autorità tedesche e quelle italiane si erano accordate sul fatto che le prime avrebbero potuto procedere alla deportazione nei campi del Reich degli ebrei arrestati nel territorio della RSI. Dopo l’invio di due piccoli trasporti di ebrei anglo-libici a Bergen-Belsen, da usare come “merce di scambio”, il 22 febbraio si procedette alla prima deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Nessuno se l’aspettava: «Come scrive Primo — testimoniò Luciana –, noi stavamo mangiando, sono arrivati gli italiani: “Domani mattina partite!”. Ci stavamo facendo uno spaghetto, abbiamo smesso di mangiare questo spaghetto. “Domani si parte per la Germania!”. Ce l’hanno detto in quel momento lì, dalla sera alla mattina. E lì è stato il momento della... fine». Il mattino dopo, alla stazione di Carpi, i quattro amici appresero la loro destinazione: Auschwitz, “un nome privo di significato”. Giunti al Brennero, riuscirono a buttare dal vagone dei biglietti scritti a mano a familiari e ad amici comuni, che arrivarono a destinazione.
Giunti alla Judenrampe di Birkenau, furono divisi. Scrisse Primo: «Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita». Tutti e quattro furono selezionati per il lavoro coatto. Primo e Franco vennero portati in camion a Buna-Monowitz; Luciana e Vanda furono avviate, a piedi, a Birkenau. La sorte di Primo è conosciuta da tutti; Franco morì nel gennaio del 1945 durante la marcia di evacuazione. Luciana venne impiegata come medico nel Frauenlager del campo, quindi trasferita in un sottocampo all’interno del Reich, da dove, prima della liberazione, riuscì a fuggire.
Alcuni anni dopo sarebbe diventata una famosa psichiatra. Vanda, purtroppo, come disse Luciana, «…è stata una sommersa subito. Le si sono subito gonfiate le gambe, si trascinava a stento. Un mese dopo l’hanno selezionata». Un’altra dottoressa italiana deportata, la triestina Bianca Morpurgo, riuscì a somministrarle un barbiturico: «All’ultimo momento le ho dato un tubetto di Gardenal! È stato un vero strazio», scrisse Bianca a Luciana in una lettera alla fine del 1945.
Luciana raccontò che le ultime parole che sentì da Vanda furono: «Se avrai una bambina, chiamala Vanda» e questo avvenne: «Ho avuto una bambina che è nata morta. La bambina che ho avuto, che è nata morta, si chiamava Vanda».
Degli oltre 600 ebrei deportati ad Auschwitz-Birkenau con il primo trasporto da Fossoli ne tornarono 25, i soli sopravvissuti.
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di Daniele Autieri
la Repubblica 22 FEBBRAIO 2021
Secondo l'Ispra, appena il 30% del reticolo sotterraneo della zona Est della città è stato mappato. Molto deve ancora essere scoperto
Quando alle quattro del mattino le truppe tedesche circondarono il quartiere, molti di loro si rifugiarono lì. Per i partigiani e larga parte della popolazione del Quadraro, quei cunicoli sotterranei, lunghi chilometri, così capillari da raggiungere i confini di San Giovanni, erano divenuti da mesi riparo e strumento per organizzare la resistenza contro l'invasore nazista.
Ecco perché, all'alba del 17 aprile del 1944, i soldati tedeschi guidati da Kappler misero in atto l'operazione Balena, rastrellando il quartiere, arrestando circa duemila persone e deportandone nei campi di concentramento quasi 700.
Nella storia di quella resistenza, che valse al municipio VII della Medaglia d'Oro al Valor Civile (17 aprile del 2004) la città sommersa è un protagonista silenzioso, come i tunnel scavati dai ribelli siriani nel sottosuolo di Damasco o ancora come Mole Town, la città sotterranea abitata da talpe figlia dell'immaginazione dello scrittore Torben Kuhlmann.
Il sottosuolo del Quadraro nasce da lontano. Dall'Antica Roma, quando il tufo veniva scavato e utilizzato per costruire la capitale dell'impero. E poi ancora molti secoli dopo passando dalla roccia alla pozzolana, e dalle domus alle palazzine degli anni '40 e '50 del secolo scorso edificate dalle famiglie di sardi e siciliani arrivati nella grande città in cerca di fortuna.
Al mausoleo di Coriolano, scoperto sotto via del Quadraro, si è aggiunto negli anni un reticolo di cunicoli capaci di raggiungere anche tre metri di diametro che corrono ad una profondità di circa sei metri. Decine di tunnel sotterranei che, a parte essere divenuti il rifugio di tanti partigiani, non sono mai stati messi in sicurezza finendo per indebolire la superficie del quartiere.
Oggi, secondo l'Ispra, appena il 30% del reticolo sotterraneo della zona Est della città è stato mappato. Molto deve ancora essere scoperto, da qui il rischio ancora più elevato per le nuove costruzioni spuntate senza una reale pianificazione urbanistica.