IL 17 APRILE 1944, 80 ANNI FA, AVVENIVA IL RASTRELLAMENTO DEL QUADRARO. I NAZISTI PUNIVANO QUESTO QUARTIERE POPOLARE DI ROMA, “NIDO DI VESPE” DI PARTIGIANI, DEPORTANDO IN GERMANIA 750 ABITANTI. UNA VICENDA IGNORATA DAGLI STORICI. MA OGGI C’È CHI SI BATTE PERCHÉ NON SIA DIMENTICATA
Il Murale - Il "Nido di Vespe" (Così i nazisti chiamavano il Quadraro) è un murale di Lucamaleonte in via Monte del Grano, per il progetto M.U.Ro lanciato dall'artista Diavù |
ROMA
«Era mezzo buio, erano le 5 del mattino del 17 aprile 1944, e sentimmo prendere a calci la porta di casa. Andai ad aprire io e trovai questi due soldati tedeschi altissimi, con il mitra. Fu un attimo. Ricordo ancora papà in mutande e canottiera che veniva portato via». Domenico Carbutti, 85 anni, accarezza le foto di suo padre Salvatore, uno dei 750 rastrellati del Quadraro. Sono passati 80 anni da quella mattina in cui i nazisti, con il pretesto della ritorsione per l’uccisione di tre tedeschi, avvenuta una settimana prima in un’osteria del quartiere ad opera di partigiani a cui si era unito il Gobbo del Quarticciolo, vollero dare una lezione e chiudere i conti con il Quadraro, la “borgata ribelle” del Sud di Roma. «Il comando della città era dell’opinione, più volte manifestata, che quando qualcuno non trovava rifugio o accoglienza nei conventi o nel Vaticano si infilava al Quadraro, dove spariva – scrisse nelle sue memorie il console tedesco a Roma, Eitel Friedrich Moellhausen – Voleva farla finita una buona volta con quel nido di vespe».
Si tratta di un episodio che è stato poco studiato, al punto che non è noto l’elenco esatto di tutti i rastrellati né di quanti morirono in prigionia. Ma è una grande storia, «il più imponente rastrellamento che subì Roma», lo definì Moellhausen, escludendo quelli, di natura diversa, dei 2.500 Carabinieri del 7 ottobre e quello degli oltre mille ebrei del 16 ottobre 1943. «Tra i rastrellati c’erano tanti semplici lavoratori, perlopiù artigiani ed edili. C’erano ebrei, partigiani, militari sbandati, carabinieri entrati nella resistenza», ci spiega Pierluigi Amen, storico dell’arte che da dieci anni, operando per conto dell’Anrp (Associazione nazionale reduci dalla prigionia), ha fatto di questa storia il cuore del suo impegno. «Fu il terzo rastrellamento organico a Roma e fu messo in atto dopo Via Rasella e l’ eccidio delle Fosse Ardeatine, avvenuti tre settimane prima – continua Amen – Già dopo quella stragele alte gerarchie naziste avevano dato l’ordine di provvedere all’evacuazione e alla deportazione dei cittadini risiedenti nei rioni e sobborghi maggiormente “infestati” dai comunisti, come Trastevere, Testaccio e San Lorenzo, per poterli avviare al lavoro coatto verso le fabbriche del Terzo Reich. Ma, data la difficoltà tecnica di esecuzione e la mancanza di uomini e mezzi, la scelta cadde sul Quadraro che, essendo circondato da campi, era relativamente facile da rastrellare». Con la guida di Amen, nostro Virgilio, torniamo allora a 80 anni fa, alle porte del “nido di vespe”.
Giovanni Castelli, 92 anni, mostra la foto del padre Guido | Uno dei rasytrellati del Quadraro |
Il “nido di vespe”
Il Quadraro è dove finiva Roma. È un quartiere a Sud-Est della capitale tagliato dalla Tuscolana e a due passi dal Parco degli Acquedotti e da Cinecittà. Al tempo del fascismo era una borgata popolare di baracche e casette a due piani in cui si erano trasferiti prima gli immigrati pugliesi e abruzzesi e poi gli sfollati dei bombardamenti in Ciociaria. Un quartiere degli ultimi, che era mal tollerato dal regime e che sotto l’occupazione nazista avrebbe manifestato ancora di più il suo carattere ribelle. Qui, al sanatorio Ramazzini, aveva il suo quartier generale il Movimento Comunista d’Italia, noto come Bandiera Rossa, formazione partigiana trotskista i cui militanti erano perlopiù operai e artigiani e non studenti intellettuali come invece i comunisti dei Gap.
In quei mesi soldati, partigiani e semplici cittadini combattono e sfidano i nazifascisti nel quadrante, sfruttando le grotte e la “casba” dei vicoli. Rubano armi all’aeroporto militare di Centocelle, lasciano sull’Appia chiodi a quattro punte che mettono ko i camion tedeschi, uccidono soldati e spie fasciste, scrivono sui muri «Chi dorme non piglia nazi», nascondono renitenti alla leva ed ebrei, assaltano i forni per redistribuire il pane al quartiere.
Monumento commemorativo al Quadraro |
Via Rasella e il colpo del Gobbo
Tutte attività per cui era prevista la pena di morte. È la “Borgata ribelle”, come da titolo del libro di Walter De Cesaris (Edizioni Odradek) che nel 2004 ha avuto il merito di riscoprire questa storia.
Giovanni Castelli, 92 anni, è anch’egli, come Domenico Carbutti, uno degli ultimi testimoni. È figlio di Guido, un altro dei rastrellati, e ricorda: «All’Arco di Travertino, dove ora passa la metro, c’erano le grotte dei partigiani. I fascisti erano malvisti al Quadraro. Mio padre aveva smesso di fare il netturbino dopo aver litigato con un federale che l’aveva rimproverato. Aveva gettato a terra la scopa dicendo “Ah sì? E allora mo’ la strada te la scopi da solo”». «Il regime però controllava comunque il quartiere – aggiunge Carbutti – A via dei Ciceri c’erano questi sei fascistoni della Guardia regia che spadroneggiavano e ci tenevano d’occhio, perché papà era socialista».
Da marzo, nel quartiere e in Roma tutta, si assiste a un’escalation. Gli americani sono sbarcati ad Anzio già da un mese e mezzo, ma tardano a entrare e bombardano facendo vittime civili anche al Quadraro. Il 4 marzo il locale neocommissario di polizia Armando Stampacchia, un duro mandato a raddrizzare la zona Sud-Est, viene ucciso in casa dal gappista Clemente Scifoni. L’attentato di via Rasella, in cui il 23 marzo i Gap uccidono 33 soldati tedeschi in pieno centro, cambia tutto. Albert Kesselring, massima autorità militare tedesca in Italia, raccontò di aver temuto che fosse «il preludio all’insurrezione generale». Hitler è più che mai nero d’odio e rabbia e scatta così la vendetta delle Fosse Ardeatine: 335 italiani uccisi, tra cui tantissimi civili e persone prese a caso per strada. Il rastrellamento del Quadraro è come una “prova generale”, perché i nazisti vorrebbero deportare tutti gli uomini di Roma: «Ci sono le memorie di Moellhausen, dell’attaché diplomatico Eugen Dollmann e le dichiarazioni processuali di Herbert Kappler che convergono sul punto e che pur essendo disponibili sin dagli anni ’50 non sono state incredibilmente quasi mai prese in considerazione», dice Amen.
I tedeschi hanno bisogno urgente di schiavi per fortificare le difese in Europa, perché gli Alleati avanzano. Ma tutti gli appelli alla popolazione rimangono inascoltati: c’è fame e disperazione, eppure non ci si fida di quel “lavoro” offerto dagli odiati occupanti. Così si procede con i rastrellamenti. Tanto alla cieca che a inizio febbraio lo stesso neoquestore Pietro Caruso, non riconosciuto, viene fermato per strada e portato in caserma per errore.
Questo è il contesto in cui, il 10 aprile, un lunedì di Pasqua, si assiste a un episodio chiave. All’osteria La Campestre, più nota come Da Giggetto, lì dove il Quadraro si allungava tra campi desolati verso Cinecittà e l’Istituto Luce, entra in scena Giuseppe Albano, il Gobbo del Quarticciolo, allora sedicenne, un po’ partigiano e un po’ bandito. Per lui il Quadraro è una «foresta urbana di Sherwood», scrive Robert Katz. È con due compagni e, sarà stato un commento di troppo o un’azione premeditata, fatto sta che uccidono tre soldati tedeschi. I nazisti non aspettano altro. È il pretesto per punire la borgata ribelle, ripulire un quartiere che ostacola i rifornimenti verso il fronte Sud e pure caricare finalmente verso la Germania, come da ordini di Berlino, gli uomini di quella popolazione riottosa.
Domenico e Maria Pia Carbutti 85 e 83 anni con la foto di Salvatore | Il papà barbiere deportato |
Il rastrellamento
Il 17 aprile 1944, in gran segreto, ha dunque inizio la
Unternehmen Walfisch, l’Operazione Balena. Alle 3 gli autocarri hanno già sigillato le vie d’uscita. A guidare le operazioni è il tenente colonnello Herbert Kappler in persona: il comandante delle SS a Roma. Dei tremila uomini fanno parte, oltre alle SS, i reparti del Panzergrenadier-Regiment 71, fatti affluire apposta dalla riserva del fronte sul litorale laziale. Dalle 5, casa per casa, cercano uomini tra i 16 e i 55 anni. Grida, ordini, botte. C’è chi prova a nascondersi o a fuggire, e qualcuno ci riesce, come il partigiano Adriano Ossicini (poi senatore e ministro) o i ragazzi nascosti presso le suore belghe. Le mogli e i bambini intanto piangono, implorano: quegli uomini sono l’unico sostentamento della famiglia. I tedeschi non hanno pietà e con il gesso segnano le abitazioni in cui sono entrati.
Salvatore Carbutti era nato ad Andria e aveva trent’anni nel 1944. Faceva il barbiere a via dei Quintili, il cuore del Quadraro, dove avevano casa («Una baracchetta») e bottega. Domenico, suo figlio, oggi ricorda: «Dalla finestra vidi questa fila infinita di camion militari verdi, con i teloni e le panche. Mi misi a piangere quando un nazista colpì con il calcio del fucile un anziano che non riusciva a salire sulle scalette». «Presero anche l’assistente di mio padre, Angelo, che dormiva nella nostra cucina e di cui da allora non abbiamo saputo più nulla – lo interrompe la sorella Maria Pia, di due anni più giovane – Vidi il nostro vicino che invece era riuscito a nascondersi in alto, nel cassettone del water. Quel disgraziato. Non poteva farci entrare anche mio padre?». «In quei mesi non sapemmo più niente di papà – continua Domenico – Mamma mi portò a via Tasso, dove c’era il Comando nazista, ci avevano detto che forse lo tenevano lì e invece non era vero. Avevamo portato un po’ di pastasciutta, i nazisti urlarono in tedesco e scappammo via buttando tutto per terra».
Il rastrellamento di Guido Castelli avviene invece per caso, per sfortuna. «Fu tutta colpa delle arance di Fondi – spiega il figlio Giovanni – Noi abitavamo poco fuori dal Quadraro. Mio padre, che allora aveva 45 anni, uscì presto per andare a comprare le arance di Fondi, che poi avrebbe rivenduto a Piazza Vittorio. Oggi di direbbe che faceva la borsa nera, ma era un commercio di sussistenza, tutti si arrangiavano. Insomma era uscito presto per incrociare sui binari il treno da Fondi. Quand’ecco che addentrandosi nel Quadraro a Vicolo degli Angeli si imbatté nel rastrellamento dei tedeschi, che lo portarono via. Io avevo 13 anni, lo aspettavo a casa ma non tornava. Mi venne uno sfogo sulla bocca per la paura che fosse morto».
Salvatore Carbutti con la famiglia al Quadraro prima del rastrellamento |
Un prete a Cinecittà
I camion conducono tutti al cinema Quadraro, dove i rastrellati, alcuni ancora in pigiama, vengono discriminati (gli inabili, i malati, i troppo giovani e i troppi vecchi tornano a casa), poi identificati e spediti in tram agli stabilimenti di Cinecittà, che allora ospitava il quartier generale tedesco del comando delle Armate Sud in Italia. Sono tutti lavoratori e padri di famiglia, non c’è nessuna caccia al partigiano o ai responsabili della morte dei tre tedeschi. Anche perché i veri partigiani sono appunto nascosti al sanatorio Ramazzini, dove i nazisti, temendo la tubercolosi, nemmeno si avvicinano.
All’operazione prendono parte anche gli italiani? «Al processo contro i fascisti del Quadraro gli stessi rastrellati affermano di non averne visti, mentre ci sono riscontri su italiani che indossavano la divisa tedesca. I nazisti non si fidavano degli italiani e li coinvolgevano il meno possibile – risponde Amen – Ma le giovani dattilografe italiane che si trovavano al cinema Quadraro per raccogliere le generalità erano con tutta probabilità delle ausiliarie della Rsi. Purtroppo, gli elenchi da loro redatti non sono stati ritrovati».
Pierluigi Amen |
A Cinecittà entra in scena Don Gioacchino Rey, il parroco di Santa Maria del Buon Consiglio, la chiesa del Quadraro, che aiutava i partigiani. Ha saputo dove sono stati condotti e cerca di intercedere presso i nazisti. Viene strattonato e colpito, ma ottiene la liberazione del farmacista e dell’unico medico del quartiere. Poi raccoglie i bigliettini con cui i prigionieri salutano le famiglie. Si deve proprio a Don Rey la lista provvisoria di 678 rastrellati che praticamente fino all’arrivo di Amen ha rappresentato il punto di riferimento ufficiale degli storici (Nel 2017, grazie al lavoro di Amen, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha conferito la Medaglia d’oro al merito civile alla memoria di Don Rey, che divenne il terzo sacerdote romano a ottenere questo riconoscimento per le sue azioni durante la Resistenza, dopo don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo, ma ebbe una sorte sfortunata: morì in un incidente stradale il 13 dicembre 1944).
Mentre tutti sono a Cinecittà, il comando tedesco pubblica sui giornali un comunicato in cui spiega i motivi dell’operazione: «La dura risposta germanica che, purtroppo, ha dovuto far seguito al delitto consumato in via Rasella, ha trovato evidentemente in alcuni ambienti poca comprensione. Nel lunedì di Pasqua, nuovamente, parecchi soldati germanici sono caduti alla periferia di Roma, vittime di assassini politici. Gli attentatori riuscivano a rifugiarsi, senza essere riconosciuti, nei loro nascondigli in un certo quartiere di Roma dove essi trovano protezione presso i loro compagni comunisti. Il Comando superiore germanico è stato perciò costretto ad arrestare oggi nel detto quartiere tutti i comunisti e quegli uomini abili al lavoro che collaborano con i comunisti o li appoggiano. Gli arrestati verranno assegnati ad una occupazione produttiva nel quadro dello sforzo bellico germanico diretto contro il bolscevismo. La popolazione di Roma comprenderà queste misure». Anche questo ordine è stato dunque eseguito. La borgata ribelle è stata punita.
Ritratto di Sisto Quaranta ad opera di Diavù |
Nel campo di Primo Levi
Il 18 e 19 aprile per i rastrellati comincia l’odissea. Da Cinecittà vengono condotti su dei camion – diretti chissà dove – che a Prima Porta però improvvisamente si fermano. Vedono una grande buca e li assale il terrore: saranno le loro cave ardeatine? Invece ripartono e arrivano a Terni, dove rimangono dieci giorni nella zona industriale Polymer. In due però sembra che vengano rilasciati: un sedicenne figlio di una vedova e, grazie a una raccomandazione, un usciere del Ministero degli Esteri. Si riparte per Firenze. Qui i deportati restano chiusi una giornata in un treno in sosta alla stazione Campo di Marte. Il primo maggio raggiungono Fossoli, vicino Carpi. È un campo di transito in cui fino al 22 febbraio è stato Primo Levi e sono rinchiusi ebrei (con il triangolo giallo al petto), prigionieri politici (triangolo rosso) e civili. Da metà marzo è gestito dalle SS e l’impatto è orrendo. Nel loro primo giorno un ebreo già nel campo, Pacifico Di Castro, riceve l’ordine di mettersi in fila, ma non sente bene e si attarda, così un ufficiale nazista gli spara e lo uccide, davanti a tutti. Fossoli vuol dire lavoro, pidocchi, brodaglie, umiliazioni. Ricevono tutti un numero, la loro nuova identità ufficiale, e inizialmente vengono catalogati come “politici” e dunque ricevono il triangolo rosso, ma presto ci si accorge che tali non sono: nel campo i politici sono gli intellettuali, i “milanesi”, partigiani e perlopiù benestanti, un mondo a parte rispetto ai “quadraroli” del Sud di Roma. Dopo più di 50 giorni nel limbo, ai rastrellati del Quadraro viene “chiesto” di firmare una dichiarazione per andare a lavorare “volontariamente” in Germania. L’alternativa è ignota e la sensazione è che è meglio non provarla. Così quasi tutti firmano e il 24 giugno alla stazione di Carpi vengono caricati sui vagoni-merce per il Nord.
Pochi riescono a fuggire gettandosi dal treno e si rifugiano nelle campagne, con qualcuno, come Adolfo Bonfanti, che trova la morte da partigiano. Tutti gli altri finiscono invece in Germania, al termine di un viaggio in cui c’è chi racconta di aver mangiato lumache e lucertole crude.
Targa commemorativa |
Schiavi di Hitler
Il 29 giugno i rastrellati sono a Ratibor, oggi Racibórz nella Slesia polacca. Qui vengono selezionati come al mercato degli schiavi, a seconda delle loroabilità, e le loro strade si dividono. C’è chi va a scavare trincee e chi a lavorare nelle fabbriche, tra Germania, Austria e Polonia. Le località si chiamano Bad Lauterberg im Harz, Hannover, Wiesbaden-Biebrich, Darmstadt (alla multinazionale farmaceutica Merck KGaA). Ovunque le condizioni sono proibitive: 12 ore al giorno a spaccarsi la schiena, per tornare poi a dormire in baracche infestate di parassiti e sotto lo sguardo di guardie senza pietà. Qualche volta viene concessa la libertà di un giro in paese, ma con quegli stracci e quelle facce smunte finiscono per essere derisi dalle donne e a volte malmenati dalla gioventù nazista locale.
A Roma intanto la vita delle famiglie va avanti. Ricorda Castelli: «Il capofamiglia divenne mio fratello 15enne. Andavamo a cogliere la cicoria davanti all’Istituto Luce e lui continuava anche sotto i bombardamenti americani. Non avevamo più notizie di papà, che dal 3 luglio lavorava alla IG Farben ditta Dyckerch. Qui facevano la benzina dal carbone e lui si occupava di costruire i rifugi. Era stato anche carpentiere e una notte le sue conoscenze gli salvarono la vita: durante un bombardamento capì che il piano superiore non avrebbe resistito e scese di sotto, quelli rimasti sopra morirono. Poi lo fecero lavorare in una fabbrica dello zucchero, ma a causa dell’ernia non poteva “incollarsi” i sacchi. Finì a scavare nei campi di patate».
Molti in Germania si ammalano, e in tanti muoiono. Quanti? «Allo stato attuale delle verifiche compiute presso l’anagrafe, i deceduti in prigionia o all’immediato ritorno a Roma per cause belliche, malattie o in diretta conseguenza di maltrattamenti subiti risultano 31. La cifra di circa 300 o “la metà” che è circolata sino ad oggi fu fornita in modo errato da Italia Poeta in una intervista a Cesare De Simone – racconta Amen – Fra i morti in prigionia il più giovane fu Eldio Del Vecchio, 17 anni e mezzo, deceduto a Buchenwald 15 giorni prima che venisse liberato il campo, dove era stato condotto per punizione. Il maresciallo Menotti Martini morì in una fabbrica di Magdeburgo, mentre Santolo Di Palma in un ospedale in Austria al ritorno dalla prigionia nell’ottobre 1945 e il suo corpo non venne mai ritrovato».
Guido Castelli a Fossoli |
Il ritorno a casa
Chi non muore ha la fortuna di vedere arrivare, a partire dal gennaio 1945, gli Alleati. Che liberano i campi, forniscono cibo e li aiutano a riprendere la strada di casa. Per alcuni dei deportati, grazie agli americani, iniziano straordinarie avventure, come quelle raccontate da Sisto Quaranta nel libro Operazione Balena di Carla Guidi. Tra il giugno e l’agosto del 1945, 14-16 mesi dopo quell’alba del 17 aprile 1944, i sopravvissuti del rastrellamento del Quadraro tornano a casa. Racconta Castelli: «Poi un giorno arrivarono i russi e lo salvarono. Mio padre tornò , tutto secco, il 4 giugno 1945. Roma era stata liberata già da un anno, ricordo quell’ultimo tedesco su un pino a Porta Furba, gli spararono e cadde giù come un piccione. In quell’anno e mezzo avevamo avuto notizie di mio padre solo tramite una cartolina che era riuscito a spedirci grazie alla Croce Rossa. È poi morto a 89 anni».
Carbutti fu invece tra quelli che tornarono prima: «A Fossoli i nazisti obbligarono papà a far loro da barbiere. Poi, nel trasferimento, scappò dal treno grazie a un ferroviere italiano, che gli consigliò di gettarsi dalla finestrella quando in curva avrebbe rallentato. Tornò a casa il 27 agosto del ’44. Quando bussò aprii io. “Chi è?”, chiese mia madre. “Non lo so, ma’, non lo conosco”. Aveva perso trenta chili. Non ci ha mai raccontato come sopravvisse in quei due mesi, nascondendosi in zone pericolosissime in cui passava il fronte, sappiamo solo che lo segnarono profondamente. È morto a 62 anni di cirrosi, anche se non aveva mai bevuto. Per anni era entrato e uscito dagli ospedali, si era preso qualcosa. Aveva poi trovato lavoro alla Tecnostampa, sviluppava le pellicole dei film e le portava nei cinema».
La memoria oggi
Questa storia è un puzzle e vi si sta dedicando come detto, tra ostacoli e frustrazioni, lo storico Amen, quasi come in una complicata indagine di polizia. Quando intervistiamo Carbutti, questi parla di uno zio deportato di cui non ha mai saputo niente, e allora Amen lo incalza, e stavolta riesce a fargli ricordare la parrocchia in cui lo zio si sposò: una nuova traccia da cui ora “il commissario Amen” ripartirà per provare a ricostruirne la vicenda. «La storiografia ha sempre trascurato il rastrellamento del Quadraro», racconta Amen, che è sempre alla ricerca di nuovi documenti (chi ha informazioni può contattarlo alla email rastrellamentodelquadraro@
Nel 1944 il Quadraro era una specie di paese in cui tutti si conoscevano: un’impressione che sopravvive tuttora, con il quartiere che prova a resistere alla gentrificazione, alla trasformazione in un nuovo Pigneto. Che cosa ne è oggi di quella storia, adesso che tutti i sopravvissuti sono morti? Dimenticata per decenni, è riemersa davvero solo con il nuovo secolo. Nel 2004 il Quadraro ha ricevuto la Medaglia d’oro al valor civile. Nel 2018 Sergio Mattarella ha nominato gli ultimi 7 sopravvissuti Commendatori al merito della Repubblica italiana. Il 17 aprile, in Campidoglio, ci sarà infine una cerimonia per gli 80 anni. «La consapevolezza e la sensibilità del territorio sono aumentati», ci dice Francesco Laddaga, presidente del VII Municipio, del Pd, che dall’anno scorso ha ripristinato il corteo e il concerto per le commemorazioni: «Quest’anno scopriremo anche la targa per intitolare loro la via che oggi porta il nome di Arrigo Solmi, ministro fascista. Ho creato una delega alla memoria e sono molto legato al rastrellamento, di cui sentii parlare per la prima volta a 17 anni, nella mia parrocchia, la stessa di Don Rey. Da allora ne abbiamo fatta di strada, anche grazie al lavoro delle scuole».
A conservare la memoria del rastrellamento ci sono anche un monumento nel Parco 17 aprile 1944, e il progetto M.U.Ro, lanciato dall’artista David Vecchiato, in arte Diavù, che dal 2012 ha arricchito il Quadraro, anche su commissione del Municipio, con alcuni murales ispirati a quella tragedia. Tra questi, un’opera dell’americano Gary Baseman, il “Nido di vespe” di Lucamaleonte e, nel 2018, un ritratto del deportato Sisto Quaranta: «Era appena morto e volli farlo io. Gli volevo bene, era una forza della natura. Conosco la storia del rastrellamento sin da piccolo. Me ne parlavano i miei nonni, che erano di Cinecittà e alternavano i racconti sul nazismo a quelli sulle loro comparsate inBen Hur ». I murales sono oggi tappe di passeggiate organizzate e stimolano la curiosità. Possono aiutare a salvare la memoria? «Sì, ma sono comunque fatti di quarzo acrilico e quindi destinati a scomparire. Sono una memoria fragile, così come i video di YouTube con le interviste ai sopravvissuti. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno sono i libri. Che i libri di storia raccontino che cosa successe alla borgata ribelle».
I sopravvissuti oggi sono tutti morti, restano pochi testimoni L’unico storico che si occupa della vicenda, da più di dieci anni, è Pierluigi Amen.
“E papà Welby, terzino della Roma, scappò da Fossoli”
Alfredo Welby, rastrellato del Quadraro, era stato terzino della Roma | La figlia Carla e la nuora Mina - moglie dell'altro suo figlio Piergiorgio |
«Tutti i pomeriggi mia madre mi pettinava per bene e mi metteva il fiocchetto. Uscivamo fuori, portavamo una seggiolina vicino all’albero e aspettavamo che papà tornasse». Carla Welby, 81 anni, insegnante in pensione, ricorda il papà Alfredo, classe 1910, uno dei 750 rastrellati del Quadraro. Carla è la sorella di Piergiorgio, il noto attivista per il diritto all’eutanasia, affetto da distrofia muscolare, a cui la Chiesa non concesse il funerale religioso. Accanto a Carla c’è oggi Mina Welby, la moglie di Piergiorgio che tra aneddoti allegri la aiuta a ricordare la figura di Alfredo: «Mio suocero prese il posto di mio padre», sorride Mina.
Alfredo Welby, va detto subito, era stato tra le altre cose il terzino sinistro della Roma, con cui giocò dalla fondazione, nel 1927, al 1931, quando venne venduto alla Reggina. Eraalto 1,95 ed era un uomo buono: «Era un gentiluomo persino sul campo di calcio. Una volta si mise dietro al portiere, che si era infortunato ma non poteva essere sostituito, e lo manovrò come al biliardino».
La mattina del 17 aprile 1944 venne preso dai nazisti per caso. Abitava infatti da un’altra parte, ma era andato a trovare la madre al Quadraro, a via dei Pisoni, ed era rimasto lì a dormire visto che il coprifuoco allora era stato anticipato alle 16: «In quella casa c’era anche il cognato, che aveva fatto parte della guardia del corpo del Duce e non fu rastrellato. Cercò di impedire la deportazione di mio padre, ma i nazisti lo colpirono con il calcio del fucile – dice Carla, che al tempo aveva un anno – Mia madre era disperata, anche perché tra l’altro senza papà, che lavorava alla Mater, azienda di motori dell’Alberone, saremmo rimasti senza soldi. Le prime notizie le avemmo tramite la Croce Rossa a inizio maggio, lui era già a Fossoli, la sua nuova identità era un numero, il 695».
Dal campo di Fossoli gli altri “quadraroli” vengono portati via verso Nord il 24 giugno. Welby invece rimane, probabilmente non sta bene. Un giorno di luglio viene organizzato un trasferimento di malati. Un compagno che dorme in cuccetta sotto di lui muore nella notte, Welby gli sottrae il cartellino, nasconde il cadavere e prende il suo posto nel gruppo che esce da Fossoli. C’è scarso controllo e l’ex terzino della Roma fugge dal camion durante una sosta. Si nasconde in un casolare, dove il proprietario lo soccorre ma poi gli chiede di andarsene, per paura che i nazisti lo stiano cercando.
Welby arriva in una Firenze divisa e ha di nuovo fortuna: «Incontra una conoscente, che lavora in un istituto per ciechi. Lì trova rifugio, finché gli altri ospiti non si accorgono che tra loro… c’è qualcuno che ci vede ». In qualche modo raggiunge la campagna tra Toscana e Lazio, dove probabilmente viene aiutato da dei parenti. La famiglia intanto si è trasferita all’istituto Ancelle del Santuario, alla Garbatella: «Lì mia zia era una superiora e ci sentivamo più al sicuro – racconta Carla – Forse a quel punto i miei erano riusciti a comunicare, perché in uno di quei pomeriggi, mentre lo aspettavamo, papà tornò. Era il 22 agosto del 1944».
Alfredo Welby ricominciò a lavorare per la Mater, e il 26 dicembre del 1945 nacque anche Piergiorgio. Ma questa è un’altra storia. Alfredo Welby è morto nel 1998. «Non aveva voglia di parlare di quel periodo, mentre ci raccontava di tutti i gol segnati con la Roma, era specializzato nei penalty. Il rastrellamento lo segnò, aveva un forte senso della giustizia e gli crollò il mondo addosso, gli tolse un po’ della sua fiducia negli uomini. Ma fu un super papà, ci ha insegnato a non avere paura di niente».
la Repubblica | 7 aprile 2024
Longform
di Daniele Castellani Perelli
a cura di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) e Laura Pertici (coordinamento multimediale)